Patto di attivazione digitale e platea mobile: mistero del politichese e certezza delle stangate

Dopo aver decretato la fine del reddito di cittadinanza – e lasciato in ambasce tutti quelli che lo percepivano – il governo ha lanciato il suo nuovo modello di sostegno alla povertà: la MIA, o Misura di Inclusione Attiva.

Mi chiedevo come mai non avesse fatto contestualmente le due cose, come sarebbe stato più sensato fare. Forse per creare un’adeguata suspense, che rendesse il restyling più forte e spettacolare? Forse per dare un’angoscia più acuta ai percettori del reddito, posti per alcuni mesi di fronte alla totale mancanza di prospettive? Forse per mostrare subito i muscoli, ovviamente verso i più deboli?

Ma no, tutto è bene quel che finisce bene: si trattava solo di cambiare il nome al sussidio di disoccupazione. Sebbene, come vedremo, anche il nome è sostanza.

Siamo sempre alle solite, la politica vuole sempre avere un linguaggio tutto suo, e sta poi a noi interpretarlo e tradurlo in italiano corrente: non è un reddito, ma una misura; non spetta a tutti i cittadini bisognosi, ma solo a chi ne ha davvero bisogno (?). In particolare, non spetta agli occupabili, ma ai disoccupati.

Io non sono un sociologo né un giuslavorista, perciò mi sono messo a cercare una definizione di occupabile: ebbene, non l’ho trovata, se non quella più ovvia, che considera occupabile qualunque disoccupato. D’altronde, anche molti invalidi sono occupabili, tanto è vero che hanno diritto per legge alla riserva di una quota dei posti di lavoro. Tutte le fonti parlano semplicemente di disoccupazione, pur differenziando varie forme all’interno della categoria: disoccupazione frizionale, strutturale, stagionale, a lungo termine, giovanile, nascosta; persino disoccupazione volontaria. Ma la differenza tra occupabile e disoccupato propriamente detto proprio no, non la si trova.

Allora ho cercato nelle notizie date dallo stesso governo su questo specioso argomento. Anche queste sono scarse perché, se è vero che il governo ha parlato di occupabili, non ne ha dato una definizione chiara. Alla fine, sebbene occupabile non sia una categoria tecnicamente ben definita, da alcune dichiarazioni si delinea un profilo un po’ incerto, ma in qualche modo indicativo.

Infatti la “misura” – cioè il sussidio di disoccupazione – sembrerebbe spettare a chi è meno giovane, ha figli minori o un familiare disabile a carico. A questa categoria, si direbbe, spetta di diritto il titolo di disoccupato. Chi è più giovane e non ha figli o familiari disabili è, invece, “occupabile” e non ha lo stesso diritto al sussidio. Ma come dovrebbe funzionare in pratica l’aiuto di Stato a chi non ha lavoro? “Chi richiede il nuovo sussidio dovrà necessariamente iscriversi e sottoscrivere il Patto di attivazione digitale”, ci spiega la ministra del lavoro Calderone. Poi le strade divergono: chi è occupabile avrà un lavoro, chi non lo è avrà l’assegno. Sembra proprio l’uovo di Colombo.

Ma qui il problema non è soltanto il linguaggio (“misura di inclusione attiva”, “patto di attivazione digitale”, “occupabile”), anche se già questo dovrebbe bastare a farci capire che si tratta di una “cagata pazzesca”, per dirla con Fantozzi. Le fantasiose parole inventate dal governo nascondono una contraddizione nota in tutto il mondo e presente soprattutto in Italia: la disoccupazione giovanile. Secondo l’ISTAT (dati gennaio 2023) a fronte di un tasso di disoccupazione generale del 7,8%, la disoccupazione giovanile è del 22,1%. Cioè, in parole povere, i senza lavoro (diciamo così per non sbagliare) sono quasi tre volte di più nella categoria degli occupabili per eccellenza (giovani, per lo più single e senza figli) rispetto a quella dei disoccupati propriamente detti. Ma allora? Sarà così facile trovargli un lavoro? O i giovani sono soltanto svogliati? Beh… questo il governo non lo spiega. Se i disoccupati-occupabili sono quasi tre volte più dei disoccupati-disoccupati (scusate il bisticcio di parole, ma non l’ho voluto io) forse una ragione ci sarà, ma il governo glissa, rifugiandosi nel “patto di attivazione digitale” che, mi sembra, faccia un po’ il paio con i “navigators”, anche se ha un nome più altisonante e tecnologico.

La semplicistica affermazione di voler dare ai disoccupati-occupabili (uffa!!) un lavoro anziché un sussidio, ricorda la famosa e ricorrente promessa elettorale di Berlusconi: un milione di nuovi posti di lavoro. Promessa fatta la prima volta nel 1994, reiterata nel contratto con gli italiani del 2001 e nuovamente sbandierata qualche mese fa, durante la discussione della finanziaria. Ma il lavoro, purtroppo, non lo si crea per decreto né con le promesse, che non hanno mai tagliato la disoccupazione in generale né tanto meno quella giovanile.

In conclusione, il “patto di attivazione digitale” ci dà la certezza che il sussidio andrà a una categoria più ristretta di persone, mentre il lavoro per gli “occupabili” resterà come sempre incerto.

L’ineffabile ministra ci spiega, però, che “chi può lavorare deve essere messo in condizione di farlo e uscire quanto prima dalla misura. In questo senso non parlerei di risparmio, ma di platea molto più mobile”. Capito come? Non un risparmio, ma una platea più mobile. Solo che poi il governo (lo stesso governo, sia chiaro) ci fa sapere che la misura consentirà un risparmio di circa due miliardi di euro. Perciò, a seconda del caso, non ci sarà un risparmio, ma si risparmieranno due miliardi. Come si vede, la platea è molto mobile.

Tra le due contraddittorie affermazioni, personalmente, riterrei più credibile la seconda, perché più in linea con la politica dei partiti di maggioranza, tutti dichiaratamente avversi al reddito di cittadinanza.

Ammettiamo, allora, senza tante ipocrisie, che la MIA comporterà un risparmio, a beneficio del nostro deficit e, in prospettiva, del nostro debito pubblico. In fondo ne abbiamo bisogno.

E questo rivela un antico vizio di molti dei governi italiani: quando c’è da risparmiare, si colpiscono i più poveri. È per questo che i nostri salari non sono cresciuti negli ultimi decenni come negli altri Paesi europei. È per questo che noi andiamo in pensione a 67 anni, mentre i francesi scioperano per non andarci a 64. È per questo che chi vuole fare una TAC in tempo utile, se può, la paga di tasca propria. È per questo che i balneari non si toccano e i deputati regionali siciliani si sono aumentati lo stipendio.

È anche vero che, a dar retta alla sinistra, per finanziare il welfare senza aumentare il debito finiremmo col mettere tasse addirittura sui patrimoni, fenomeno degno dei Paesi del vecchio socialismo reale.

Sì, come la Svizzera, dove si paga una tassa patrimoniale “a tutto tondo” (cioè sull’intero patrimonio, fatte salve quote marginali e passività) e si paga una tassa progressiva sulla casa di residenza. E dove gli evasori fiscali sono puniti con tre anni di carcere, non a colpi di condono.

Evidentemente la Svizzera non è un Paese liberale, noi sì che lo siamo.

Cesare Pirozzi

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