Meriam e la Sharia, storia di una donna cristiana perseguitata

La giornalista Antonella Napoli, inviata nel Sudan del dittatore Omar Hassan al-Bashir, racconta in un libro della donna messa a morte per apostasia dal regime sudanese. Dagli stralci dell’introduzione a questo libro “Il vestito azzurro. Un regime dimenticato e il coraggio di una giornalista”, possiamo vivere la sua esperienza segnata da momenti drammatici. L’autrice seguì tra l’altro le vicende della condanna a morte nel 2014 di una donna incinta all’ottavo mese, Meriam Ishag Ibrahim, per apostasia. Una condanna che grazie alle proteste internazionali fu sospesa, anche se la Sharia ha continuato ad insanguinare il paese.

Quando il 15 maggio 2014 il giudice pronunciò la sentenza di condanna, in una Khartoum più ostile che mai verso chiunque si opponesse alle violazioni dei diritti umani e alle repressioni delle libertà, o chi come Antonella Napoli,  le raccontava, la stessa giornalista non pensava allora che sarebbe diventata un bersaglio per il regime guidato da Omar Hassan al-Bashir.

E così Antonella si racconta e per mano ci accompagna attraverso la sua storia: “Cinque anni dopo quell’episodio, mentre raccontavo un’altra storia, quella che per sempre avrebbe cambiato il Paese e la mia vita, venivo privata della libertà per diverse ore. Avevo rischiato di subire lo stesso trattamento riservato alla protagonista della vicenda che nel 2014 avevo contribuito a far conoscere al mondo. Ero in Sudan per illuminare una periferia del mondo ignorata dai media, dove le violenze e i soprusi contro innocenti, giornalisti, attivisti e oppositori erano quotidiane. Un viaggio che mi aveva portato dalla capitale sudanese fino alle aree rurali più remote, per raccogliere immagini e testimonianze delle nuove repressioni nei confronti delle minoranze e del dramma umanitario della popolazione nella regione occidentale del Darfur,

che da anni chiedeva equità nella ripartizione delle risorse e la condivisione del potere decisionale, centralizzato a Khartoum.

La storia di Meriam, la sua fede, la sua determinazione a non subire avevano indotto in me a fare di più, nel rispetto dei valori universali nei quali avevo sempre creduto: libertà, uguaglianza, democrazia. Non partecipare attivamente a quella battaglia di giustizia avrebbe significato venir meno a quei principi. Non riuscivo a credere all’iniquità di un processo assurdo, che si stava svolgendo in un sobborgo di Khartoum: un giudice di periferia aveva condannato a morte una cristiana all’ottavo mese di gravidanza e madre di un bambino di un anno e mezzo.

In quel caso, il magistrato islamico, integralista e osservante in maniera ossessiva della Sharia, non aveva mostrato alcuna pietà per Meriam e i suoi piccoli: Martin, costretto a rimanere in prigione con lei, e la bimba che portava in grembo e che sarebbe nata in carcere.

La sola colpa di Meriam fu quella di non aver rinnegato la propria fede.

La sentenza era attesa da giorni. Il giudizio già scritto. Le associazioni per i diritti umani pronte a iniziare un lungo percorso per richiamare l’attenzione sul caso. Sapevo, sentivo, che quel verdetto avrebbe sconvolto il mondo, che quella giovane, coraggiosa donna sarebbe divenuta un simbolo per la cristianità e per i diritti violati in ogni angolo del pianeta.

Nonostante le rappresentanze diplomatiche di Stati Uniti, Gran Bretagna e Olanda avessero chiesto al governo di impegnarsi a far rispettare il diritto alla libertà di culto, come era sancito dal 2005 dalla Costituzione ad interim del Sudan, e di liberare Ibrahim, non ci furono alcun arretramento o presa di distanza dall’operato del giudice che aveva emesso la sentenza.

A sollecitare l’intervento dell’ambasciata Usa era stato il marito di Meriam, Daniel Wani, sudanese di nascita con cittadinanza statunitense. Daniel era solo un ragazzo quando, da esule, era arrivato negli Stati Uniti insieme alla sua famiglia, ed era cresciuto da americano, maturando un grande rispetto per la legge e le istituzioni.

Anche per questo, insieme ai legali che seguivano il caso di sua moglie, era più ottimista: sperava che si potesse chiarire quello che riteneva fosse solo uno sfortunato equivoco. Purtroppo si era dovuto ricredere, scontrandosi con la realtà e l’intolleranza delle autorità giudiziarie locali. Un’intransigenza dura, confermata anche dalla risposta indifferente del presidente del Parlamento del Sudan. Il 15 maggio del 2014 il giudice Abbas Mohammed Al Khalifa pronunciava il suo giudizio dopo aver tentato, in un colloquio di quaranta minuti, di convincere Meriam a ripudiare la sua fede.

Ma la Sharia non ammette ignoranza. Ad alimentare quel grande astio nei suoi confronti, si aggiungeva il matrimonio con Daniel. Per l’accusa, Meriam non solo si era convertita ad altra fede, ma essendosi sposata con un non musulmano aveva commesso adulterio, in quanto avrebbe potuto unirsi in matrimonio solo con un uomo della stessa religione. Le loro nozze, per le autorità sudanesi, non erano valide.

Settantadue ore dopo il colloquio con il giudice, senza il “pentimento” richiesto, era arrivata la disumana sentenza: quella pena di morte, poi cancellata in secondo grado grazie alla mobilitazione globale a sostegno della liberazione della donna, che oggi non potrebbe più essere emessa.

Nel mio piccolo sono stata solo colei che ha reso pubblico il caso di Meriam Ishag Ibrahim, scrivendo un libro, portando la sua storia alla ribalta delle cronache internazionali e scuotendo in parte la coscienza dell’altra parte del mondo. Non so se sia poco, a volte credo che il mio poco sia stato quel tanto sufficiente a salvare una donna da un’atroce ingiustizia. E solo questo mi rende orgogliosa e sempre più determinata a raccontare storie come questa, le storie degli ultimi, in paesi integralisti che tanti danni procurano alle singole persone e alla comunità intera. Occorre sapere che con il coraggio di combattere si possono cambiare le cose. Bisogna osare, credere in ciò che facciamo e lottare fino allo sfinimento per ottenere vittoria. Si inizia con il trionfare in una battaglia con l’obiettivo di vincere la guerra”.

di Stefania Lastoria

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