L’estate sta finendo
“L’estate sta finendo”, cantavano i Righeira nel 1985, un anno lontano, quando non avevamo alcun sospetto dell’incombente crisi climatica; almeno noi comuni mortali, perché i produttori di petrolio lo sapevano benissimo, ma non gliene fregava niente.
L’estate che sta finendo quest’anno, invece, ci porta una consapevolezza… come dire? più certa, perché è la più calda di sempre nella storia dell’umanità. Lo ha certificato il Copernicus Climate Changes Service, anche se, forse, non ce n’era bisogno, l’avevamo capito da soli. Le cronache italiane hanno riportato alcuni drammatici casi di persone morte per colpo di calore, in preda a un’irreversibile ipertermia causata dall’elevata temperatura ambientale, mentre uno studio pubblicato su Nature Medicine parla di 61.672 morti in Europa per il caldo nella stagione estiva 2022.
Se questi sono stati gli effetti sulla salute individuale, il pianeta ha sofferto incendi e inondazioni, gravi come non mai, eventi estremi che hanno la loro origine nel surriscaldamento in atto. Eventi da cui non è estranea la mano dell’uomo, divoratore del suolo e, all’occorrenza, anche piromane.
Un’estate, questa, che dovrebbe definitivamente aprire gli occhi a tutti, far capire a tutti che è già tardi, che bisogna correre, darsi da fare allo spasimo per evitare guai peggiori, perché il trend è chiaro: ogni estate avvenire sarà la più calda della storia dell’umanità.
Perciò il COP 28 – previsto quando farà più fresco, a fine novembre – si svolgerà a Dubai, in casa di uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, cioè di uno dei maggiori responsabili della crisi climatica. Permettetemi di ricordarlo ancora una volta, a costo di essere noioso: il Segretario Generale dell’ONU Guterres ha più volte ricordato che i produttori di petrolio erano da decenni consapevoli dei cambiamenti climatici in arrivo, hanno deliberatamente spinto il mondo verso la crisi climatica e fatto di tutto per ingannare l’opinione pubblica.
Potremmo benevolmente pensare che i produttori di petrolio siano pentiti e vogliano porre rimedio al mal fatto. Forse, ma perché far presiedere la COP 28 al dottor Sultan Ahmed al Jaber, il quale, oltre ad essere ministro degli Emirati, è CEO della Abu Dhabi OIL Company? Perdonatemi, ma mi sembra un po’ come far presiedere una riunione della Commissione Antimafia a Matteo Messina Denaro.
È pur vero che i produttori di petrolio hanno bisogno di cambiare mestiere, visto che – almeno si spera – smetteranno presto di venderne così tanto; ma intanto gli Emirati ci vendono il gas liquefatto, che la guerra in Ucraina ha reso prezioso, e continuano a fornirci il carburante per le auto con motore a scoppio, che il nostro governo non vuole abolire neanche nel 2035. Certo, hanno capito che il cambiamento è inevitabile, ma non hanno fretta di arrivarci.
Ma questo non è l’unico pasticcio ambientalista che si sta preparando. Il candidato alla carica di commissario europeo per il clima è l’olandese Wopke Hoeksra, del partito di destra Appello Cristiano Democratico. Il problema non sono soltanto le scelte politiche del suo partito, che ha cercato di affossare assieme agli altri partiti “conservatori” il green deal europeo; né la totale mancanza di competenze del candidato sui temi di cui dovrebbe occuparsi; il problema maggiore è il suo passato alle dipendenze della Shell, il più importante gruppo petrolifero europeo. Se Hoekstra diventerà commissario europeo, guiderà la delegazione europea alla COP 28 di Dubai, che ancor più assumerà l’aspetto di una partita tra petrolieri, con buona pace per il clima e per l’interesse dei poveri abitanti del pianeta.
No, la prospettiva non è rosea, ma forse un piccolo spiraglio più favorevole sembra delinearsi, con l’aiuto inaspettato della BCE.
Prima o poi anche gli economisti e i banchieri dovevano affrontare il tema della crisi climatica. Infatti non solo le persone comuni, ma anche il grande capitale dovrà fare i conti con la triste prospettiva di scomparire, o almeno di diventare irrilevante, a causa del riscaldamento globale. Quest’anno la BCE ha effettuato uno stress test per valutare l’impatto delle politiche di transizione energetica sull’economia. Il risultato del test indica che è necessario investire coraggiosamente e rapidamente nella transizione verde e nelle energie rinnovabili per aumentare la stabilità finanziaria, ridurre i costi a medio termine e ridurre i rischi derivanti dai disastri naturali per le persone, le imprese, le banche e gli investitori istituzionali.
La Bce ha analizzato tre possibili scenari che coprono il periodo 2023-2030: transizione accelerata, transizione differita e transizione ritardata.
Il primo scenario prevede investimenti in energie rinnovabili pari a 2.000 miliardi di euro in Europa entro il 2025. Questa strategia permetterebbe all’Ue di centrare gli obiettivi fissati con l’Accordo di Parigi, portando a una drastica riduzione delle emissioni entro il 2030 e riducendo l’impatto economico del global warming.
Il secondo scenario prevede investimenti di soli 500 miliardi di euro, ed avrebbe risultati inferiori e più tardivi; il danno economico assommerebbe a 3.000 miliardi di euro e le banche perderebbero quasi la metà dei loro crediti entro il 2030, per le difficoltà arrecate dalla crisi climatica alle aziende.
Nel caso di una transizione ritardata non si raggiungerebbero gli obiettivi degli Accordi di Parigi e le banche perderebbero il 78% del loro portafoglio crediti, con conseguenze disastrose per l’economia.
In sintesi, secondo la BCE soltanto una transizione ecologica rapida e con investimenti adeguati consentirebbe di ridurre i rischi per l’economia e le aziende, oltre che per l’ambiente.
Secondo il vicepresidente Luis de Guindos “procrastinare può essere più facile e meno costoso nell’immediato, ma significa che pagheremo di più dopo”. “Dobbiamo raggiungere la neutralità carbonica per evitare rischi esistenziali alla natura, alle persone, alle nostre economie”.
Lo studio della BCE non ha avuto sui media il risalto che avrebbe meritato. A me sembra invece una pietra miliare sulla strada di una transizione ecologica.
Prima di tutto perché non proviene dal mondo ambientalista o politico: questa volta sono le banche e non il “fanatismo ultra-ecologista della sinistra” a sostenere la necessità di spingere sull’acceleratore della transizione.
Poi perché queste conclusioni aprono una nuova prospettiva alla Commissione Europea, che si accinge a definire il nuovo patto di stabilità. Ma quale stabilità potremo mai avere senza una svolta rapida e decisa verso le politiche ambientali? Quale stabilità potrà esserci se non si investono quei 2.000 miliardi di cui parla la BCE? Lo stress test ci fa capire che lo snodo fondamentale per il futuro dell’economia europea non sarà più la riduzione del debito pubblico né l’aumento dei tassi d’interesse. Dovrà piuttosto essere la lotta alla crisi climatica, che costituisce di per sé stessa la peggiore minaccia di recessione mai finora affrontata.
D’altronde, proprio un anno fa il governo USA aveva lanciato un importante investimento pubblico (l’Inflation Reduction Act, di oltre 800 miliardi di dollari) per sostenere il green deal americano, che tante proteste ha provocato in Europa perché di fatto finanzia l’industria americana, distorcendo il mercato a danno di quella europea. Sembra proprio che l’Europa debba fare altrettanto, se non di più.
Venendo poi alla politica italiana, si direbbe che lo studio della BCE smentisca clamorosamente la strategia più volte dichiarata dal nostro governo: una transizione lenta per non danneggiare l’economia e l’impresa, un nuovo piano Mattei che trasformi l’Italia nell’hub europeo del metano. Un atteggiamento in preoccupante sintonia con lo scenario della transizione ritardata, il peggiore previsto dalla BCE.
I risultati dello stress test rischiano ora di mettere in imbarazzo il fronte conservatore europeo, contrario al green deal, che considerano dannoso per l’economia. Ma è ora innegabile che anche l’economia ha bisogno di un green deal convinto e incisivo: potrà la politica ignorare il peso dell’economia?
Cesare Pirozzi