Torturato perché giornalista: i mille giorni di carcere di Shawkan

L’essere cronisti in alcune zone del mondo, in alcuni contesti o settori, permette di cullarsi nell’illusione che nel 2017 la libertà di parola ed espressione esista e che il senso di verità e giustizia che muove verso questo lavoro possa essere soddisfatto e portato a termine. Scrivere e descrivere da fuori, però, non deve farci dimenticare che la ricerca della verità tramite immagini e parole è per alcuni, in alcune zone del mondo, una lotta alla sopravvivenza più che l’utopia di un mondo migliore.

Mahmoud Abu Zeid, fotogiornalista conosciuto con il soprannome di Shawkan, si trova in arresto dal 14 agosto 2013, mentre per conto dell’agenzia londinese Demotix stava seguendo lo sgombero di un sit-in convocato in un quartiere del Cairo, durante il quale la polizia egiziana uccise più di seicento manifestanti. Shawkan stava solo cercando di documentare fatti, armato di obiettivo e obiettività. Oggi Shawkan rischia la pena di morte, a seguito del suo arresto che lo ha portato, da ormai più di mille giorni, a scontare abusi e torture nel complesso penitenziario di Tora a sud del Cairo. Benché siano due gli anni consentiti dalla legge, come periodo massimo di detenzione preventiva, SHawkan è in carcere da quattro anni ma è ancora in attesa di processo: una prima udienza si è svolta soltanto nel 2016 e da allora le sedute vengono soltanto rimandate, con l’impossibilità da parte del suo avvocato di costruire una linea difensiva contro delle accuse senza fondamento, inaccettabili, paradossali, che parlando di “adesione a un’organizzazione criminale”, di “omicidio”, di “partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane”, di “resistenza a pubblico ufficiale”: il tutto con una macchina fotografica, pare.

Nell’attesa di un processo che comunque rischia di concludersi con la pena di morte, Shawkan ha denunciato le numerose e continue torture subite durante i giorni in carcere, oltre alle negate cure mediche nonostante la diagnosi di epatite C: inutili i tentativi di farlo uscire dal carcere per motivi di salute.

Il caso, che a quanto pare poco smuove la giustizia egiziana, è stato preso in carico anche da Amnesty International (è possibile firmare la petizione qui: https://www.amnesty.it/appelli/il-giornalismo-non-e-un-crimine-freeshawkan/): non c’è libertà per nessuno, se un solo giornalista rischia di morire per il semplice desiderio di raccontare.

di Giusy Patera

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