Per la Nobel Beatrice Fihn, l’odio, le armi e la guerra fanno parte di una logica maschile

Nel 2017 ha ricevuto il premio Nobel per la pace per conto dell’Ican, la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, di cui è stata direttrice esecutiva dal 2014 al 2023. Da poco più di un anno dirige, a Ginevra, l’organizzazione no profit Lex International, che si occupa di sviluppare soluzioni ai problemi globali attraverso la legislazione internazionale. 

Nata in Svezia nel 1982, Beatrice Fihn è laureata in Relazioni internazionali e ha conseguito un master in Legge. Di una cosa è convinta: il cambiamento non si fa da soli. E più ci si confronta, meglio è per tutti.

Cresciuta in Svezia, un Paese piccolo e a quel tempo neutrale che non ha capacità di ottenere ciò che vuole con la forza, ha imparato che occorreva sempre privilegiare la diplomazia, le relazioni internazionali e la cooperazione per garantire la propria sicurezza e i propri obiettivi.

Ha vissuto in un’area con molti immigrati, attorno a Göteborg. Tutti i suoi amici, o i loro genitori, erano arrivati da un altro Paese a causa di conflitti. Erano gli anni della guerra nei Balcani, della rivoluzione iraniana, della dittatura cilena di Pinochet, della carestia in Somalia. Anche se tutti loro vivevano nella piccola e tranquilla Svezia, i suoi migliori amici avevano un legame diretto con quelle crisi. Capiva che quello che succedeva in Cile, in Iran, in Somalia riguardava anche lei.

In altre parole e paradossalmente fu proprio l’alto tasso di immigrazione a non accrescere la conflittualità ma ad insegnare a gestirla.

I suoi genitori erano attivi in politica, da studenti avevano partecipato alle proteste contro la guerra in Vietnam. 

Dunque Beatrice Fihn è cresciuta in una famiglia in cui era importante sentirsi parte di una comunità. Il che voleva dire parlare di compromessi e di come si prendono le decisioni, partecipare a riunioni e votare. 

L’opposto dell’individualismo di oggi.

Dopo la laurea, svolse un tirocinio in un’associazione femminista, la Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà. 

Ci racconta che quell’esperienza radicò in lei il convincimento che le armi e la guerra rientrano in un sistema di valori maschile. Non c’è motivo per cui la diplomazia e il compromesso debbano essere visti come una debolezza. Le soluzioni in cui tutti si vince esistono. C’è un maschile legato all’uso della forza, alle gerarchie e alle lotte di potere e c’è un femminile che predilige l’egualitarismo e la diplomazia. Questo perché, tradizionalmente, le donne per farsi ascoltare si sono dovute inventare modalità alternative alla lotta di potere che le avrebbe viste perdenti.

La pace non è solo assenza di guerra. È sviluppo, diritti umani, sostenibilità. Coinvolge l’intera società e non può escludere metà della popolazione. Le donne devono prendere parte ai processi di pace non per una questione morale ma perché gli studi dimostrano che, quando nei negoziati è coinvolto un buon numero di donne, si costruisce una pace più duratura. 

Il giorno in cui, a nome dell’Ican, ricevette il Nobel, fu per lei un’esperienza incredibile, un onore per tutta la campagna, un riconoscimento per tutta la società civile. 

E’ stata la dimostrazione che non è necessario essere un governo o un ricco per avanzare proposte alternative. Un gruppo di cittadini può migliorare il mondo. 

E rispetto ad un mondo senza armi nucleari, Beatrice Fihn è assolutamente convinta che possa esistere. Noi possiamo solo scegliere se esisterà prima o dopo che vengano usate.

Stefania Lastoria