10 Cine-pillole dei Giorni della Merla

I tre Giorni della Merla, ossia 29, 30 e 31 gennaio, dovrebbero essere i più freddi dell’anno. Da diverso tempo, però, non oi sono più, e particolarmente in questo fine gennaio. A surriscaldare nocivamente gli schermi c’è invece sempre più incombente la pubblicità illegale del fumo di sigaretta, sigaro e pipa. Ormai neanche più occulta, ma completamente esplicita. Le multinazionali del tabacco sono tornate a essere le vere grandi produttrici cinematografiche. Nel film A complete unknow, su Bob Dylan, e in The Brutalist, ad esempio, l’anti esteticità delle scene fumate, e la prostituzione cui vengono contrattualizzate/i e si sottopongono dive e divi dello schermo appare sempre più deleteria. In The Brutalist, almeno in una sua centrale parte drammaticamente importante, il fumo non si vede quasi per niente, e l’immagine ne guadagna di luminosità, perché non più distratta, distorta verso l’illecito servizio pubblicitario che deve per contratto assolvere.

Io sono ancora qui. La storia vera di Rubens Paiva, ingegnere brasiliano ed ex deputato laburista, rapito nel 1971 a Rio de Janeiro e fatto definitivamente sparire dalla dittatura militare brasiliana. La vicenda soprattutto della sua famiglia con cinque figlie/i che subiscono continui soprusi, fino all’arresto e lunga, brutale detenzione della moglie Eunice, poi rilasciata. Film e famiglia che sono la testimonianza di una caparbia resistenza e di una rivendicazione tenace, instancabile dei propri diritti civili di giustizia da reclamare sotto qualsiasi condizione. La grande interpretazione di Eunice da parte di Fernanda Torres dà sostanza esistenziale e politica a questa tenacia, oltre che spessore cinematografico a un film non facile e per questo importante proprio in Brasile. I tentativi di boicottarlo, oscurarlo non mancano, infatti, perché tanti entusiasti di Bolzonaro non demordono. Ancora meno, però, lo fa quest’ultima opera del grande regista Walter Salles che sta riscuotendo grande favore di pubblico. Durata 135 minuti.

Il mio giardino persiano. Due anime sole e in età avanzata si incontrano. Una vedova e un taxista definitivamente stroncato da un lontano grande amore che lo ha mollato. Lui deve fermarsi prima in farmacia per delle pillole. Tutto poi si svolge in una notte sola, nella casa di lei che affaccia su un giardino interno di sua proprietà. Cena tête-à-tête, vino a go-go, musica e balli felicemente liberi e ritmati. Il garbo dell’atmosfera e del coinvolgimento narrativo è quello comune a diverse vicende di questa cinematografia. E non è attenuato, anzi!,  il sottofondo di espliciti riferimenti critici al regime iraniano. Il finale è a sorpresa. D’altronde oltre al dovere di mettere al mondo figli, il patriarcato, non solo da quelle parti, riserva anche altre sorprese e incombenze alle donne. Durata 97 minuti.

No other land. Un ragazzo palestinese, con l’aiuto di un giovane giornalista israeliano, documenta la demolizione di case e l’allontanamento dei suoi abitanti da una dozzina di villaggi nella comunità Masafer Yatta in Cisgiordania. L’esercito israeliano attua tale esproprio e razzia di terre con la motivazione che là deve sorgere un’area di addestramento militare per i propri carrarmati. Fanno la loro comparsa anche coloni armati di mitra. Uno di questi, protetto dai soldati, spara direttamente allo zio del ragazzo che fa le riprese. E anche questi è ricercato da esercito e polizia. Segue in questo il destino del padre, incarcerato numerose volte fin da giovane, perché attivista dei diritti palestinesi. Padre che fin da quando lui era bambino usava la cinepresa per riprendere le gite e altri momenti della vita familiare. Tutta documentazione è realizzata con piccole video camere e anche telefonini. Sembra di riascoltare la lezione del regista iraniano Jafar Panahi, perseguitato dalla dittatura teocratica scita, impartita nel suo film Taxi Teheran. Qui mostra come anche un’adolescente, quale la sua nipotina, può usare il telefonino per denunciare i soprusi d’ogni tipo in tutto il mondo. E nonostante la frugalità tecnologica dei mezzi di ripresa, No other land, inizialmente solo selezionato, ora entra nella cinquina dei candidati al prossimo Oscar dei documentari. Durata 96 minuti.

L’abbaglio. Il regista Roberto Andò torna con tre protagonisti del suo precedente film La stranezza, del 2022. Sono Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone. Ma torna anche con un’altra protagonista di quel film, ossia sua figlia Giulia Andò. Torna dunque soprattutto alla sua Sicilia. Quella pirandelliana, questa garibaldina. Due imbroglioncelli si arruolano nelle camicie rosse, ma con tutt’altro intento che  combattere per la libertà della Sicilia e dell’Italia dai Borboni. Ma le circostanze li rendono eroi loro malgrado. Un po’ come avviene nella Grande Guerra, film di Mario Monicelli del 1959, con Vittorio Gassman e Alberto Sordi, dei quali si riprende esplicitamente qui qualche disavventura. Ma è giusto riprendere episodi e lezioni della nostra tradizione cinematografica. Un film di maggiore impegno registico e produttivo, anche per la presenza di truppe militari, battaglie, scontri, ed esterni conseguentemente più ampi. Una sfida non facile che Andò riesce a padroneggiare e condurre in porto. Anche se la sinteticità de La Stranezza, personalmente, appare più folgorante. Durata 133 minuti.

Emilia Perez. Lo strapotente boss di un cartello messicano del narcotraffico decide di cambiare non solo aspetto. Vuole anche verificare se il cambiamento si rifletta sul carattere e la personalità. Metà musical travolge per la catena di avvenimenti e per l’inventiva registica nel realizzarla. Tutto può cambiare, ma c’è un sottosuolo dell’umano che mostra quanto anche la sincera e nobile pratica degli idali del bene possa manifestarsi ugualmente quale volontà di dominio e di possesso. Acclamato dalla critica e dal pubblico.Durata 130 minuti. C’è da aggiungere che l’idea di base era già apparsa, ma non come centrale, nel film del 2018 di Roberto Andò Una storia senza nome, co-sceneggiato da Angelo Pasquini e Giacomo Bendotti, insieme al regista.

Here. La lunga storia di una famiglia americana di modesti impiegati, che nonostante altre ambizioni è costretta a vivere tutta la vita in quella casa, in quell’angolo di mondo e di visuale dalla finestra che resta pressoché immutata sullo schermo per tutta la durata del film. Ogni vicenda umana si svolge in suo here, qui, che ci è dato come la nascita, come poi le date, i giorni che attraversiamo. Nel caso di questa vicenda il suo here, il suo qui è mostrato fin dalle proprie origini e trasformazioni geologiche, preistoriche. Una volta dove gravano le fondamenta di quella casa e dei dintorni sono vissuti, e poi cacciati, morti e ammazzati indiani pellerossa. Come l’Overlook Hotel del film Shining, di Stanley Kubrick del 1980. Anch’esso sorge su un cimitero indiano. Ma cos’è quell’angolo esistenziale se non l’America stessa, nella quale puoi anche desiderare d’andartene per le delusioni e le ferite subite; o dove un nero deve insegnare a suo figlio come mostrare i documenti alla polizia quando ferma la tua auto, per non essere sparato e ammazzato al primo movimento incerto. Sì, ma alla fine, nell’essenza della casa svuotata, con due semplici sedie davanti alla finestra tu non puoi che avvertire un alone di gioia per quello che quel tuo here, nonostante tutto, ha saputo darti. Consolatorio? Auto assolutorio del sistema? O è questa l’autentico senso dell’esperienza terrena di ognuno di noi che il regista Robert Zemeckis vuole squarciare? Girato con il sistema di ringiovanimento elettronico, tanto che Tom Hanks sembra un ragazzino. Durata 104 minuti.

The Brutalist. László Tóth, un architetto ungherese ebreo, fugge dall’Europa verso l’America per scampare ai campi di sterminio nazisti e rifarsi un’esistenza. Sua moglie Erzsébet e la nipote Zsofia, però, restano intrappolate in Europa e non possono raggiungerlo. László sperimenta diversi iniziali momenti di gloria, seguiti però da rovesci che lo riscaraventano nella miseria tanto materiale, quanto non umana. Quest’ultima soprattutto tocca con mano al servizio del magnate Harrison Lee Van Buren, che vuole avvalersi sì della sua genialità artistica, ma per appropriarsene, assoggettarla al proprio dominio. Quando finalmente nipote e moglie lo raggiungono, la brutalità appropriante si esplicita anche in intenzioni e atti fisicamente concreti. Pregevole la sperimentazione di un linguaggio cinematografico che faccia emergere i significati esistenziali dall’interno della forma immagine. Dieci anni di lavorazione, Girato in 70mm, dura 215 minuti, ossia tre ore e mezza, interrotte da 15 minuti di intervallo per bagno e bar.

A complete unknow. Dagli esordi nel 1961 di Bob Dylan, totalmente sconosciuto, fino al 1965, con il concerto della sua svolta elettrica, considerata un vero tradimento dai suoi seguaci folk. Lo lancia Joan Baez della quale, ricambiato, s’innamora e con la quale consuma anche il suo primo tradimento sentimentale. Ma lui cambia donne come le chitarre nei suoi concerti. Timothée Chalamet, l’enfant prodige del cinema internazionale, interpreta alla grande Dylan. Il quale leggendo il copione ha approvato preventivamente il film. Dal punto di vista squisitamente e artisticamente cinematografico, però, il film può deludere i cinephile, perché raccontato in modo del tutto tradizionale. Diversamente da Io non sono qui, il film di Todd Haynes del 2007, con la multiforme e vertiginosa Cate Blanchet nel ruolo di Bob Dylan. Come dire: per un grande artista ci vuole un racconto artistico all’altezza. Ciò non esclude che l’attuale versione possa convincere il grande pubblico più della prima. Durata 141 minuti.

L’uomo nel bosco. Torna da Tolosa nella cittadina di provincia in cui è cresciuto per partecipare al funerale del panettiere che gli aveva dato lavoro. Ma si scontra subito con il figlio del caro estinto che lo vede di malocchio per una presunta attrattiva erotica sulla matrigna. Le cose si complicano in maniera infernale e poliziesca. Per fortuna che c’è il prete locale, il quale è un vero e proprio angelo custode postmoderno. Sempre pronto a intervenire nei momenti più micidiale, può anche permettersi di intromettersi nelle indagini del commissariato locale, pur di squarciare un diverso senso del bene e della misericordia umana e divina. Miséricorde, infatti, è il suo titolo originale. È davvero il personaggio chiave che fa letteralmente ascendere il senso e la qualità dell’opera, rendendola al contempo godibilissima. Durata 102 minuti.

Itaca – Il ritorno. Il regista Uberto Pasolini, in questa ripresa di una narrazione della Grecia arcaica, si rifà a un altro Pasolini: Pier Paolo Pasolini. Diversi i film di quest’ultimo sui miti greci, tutti improntati a un particolare arcaicità dei luoghi, dei costumi, dei riti e delle atmosfere. Un’arcaicità esistenzialmente immaginifica, poetica, quale forma dell’immagine filmica esteriore che si salda intimamente con i contenuti del racconto, per permettere di esprimerli al meglio. Qui, invece, l’arcaicità è molto scarna, ridotta all’essenziale di quattro stracci buttati addosso, mentre i contenuti sono espressi seguendo quasi linearmente la narrazione omerica del ritorno a Itaca di Ulisse. Pure l’opera raggiunge una sua efficace tensione drammatica, anche se non poetica. È nel finale, però, che esplicita la sua forte denuncia contro ogni guerra. Antinoo, che tra i Proci è stato quello più vicino alla mano di Penelope, glielo lo dice con calma in faccia a Odisseo: “Se fosse stata con me non l’avrei mai lasciata. Sarebbe stata un’altra storia”. Lei urla di orrore quando Telemaco lo decapita. E alla fine non le resta che detergere il copioso sangue della guerra dal corpo del redivivo e ritornante suo uomo. Un altro compito del patriarcato assegnato alle donne. Durata 116 minuti.

Riccardo Tavani