“Non c’è acqua più fresca”, un viaggio nel Friuli di Pier Paolo Pasolini

Una festa di Paese, un piccolo palco arrangiato con mezzi di fortuna. Si apre così lo spettacolo “ Non c’è acqua più fresca” , scritto e interpretato da Giovanni Battiston con le musiche dal vivo di Piero Sidoti, in scena il 20 Febbraio al Teatro Vascello di Roma. Sottotitolo “Volti, visioni e parole dal Friuli di Pier Paolo Pasolini”.
Nell’atmosfera tutta raccolta di un minuto evento paesano, Giovanni Battiston ripercorre luoghi, odori, volti e colori di quella appartata realtà ancora contadina tanto cara a Pasolini. E lo fa servendosi dei versi in dialetto friulano che, dall’esordio poetico con Poesie a Casarsa del 1942, hanno segnato l’intero arco artistico di Pasolini.
Un rapporto, quello col dialetto, che è per Pasolini innanzitutto di tipo affettivo, non soltanto per i ricordi d’infanzia ma anche in quanto espressione di una realtà minore, contadina ,estranea perciò ai meccanismi di mistificazione che in quegli anni stanno iniziando a muovere la società moderna. Il dialetto come forma di ribellione contro quell’appiattimento culturale e (a)morale che sfocia in quello che tante volte Pasolini ha identificato come la vera forma di fascismo. C’è nel dialetto un’innocente libertà e non importa quanto si comprenda ciò che si sta ascoltando, perché il dialetto è prima di tutto evocativo.
Giovanni Battiston con il suo spettacolo ci racconta questo e lo fa con una leggiadria che arriva alle orecchie e al cuore degli spettatori senza nessun rischio di pedanteria.
Sul palco del Teatro Vascello scorrono istantanee di una vita perduta, fatta di fontane, di grilli, di campane e di giovani. Giovani belli, come David ( Ti sos, David, coma un toru ta un dì di Avril), poveri come i ragazzi che se ne vanno al cinema a spiare a ricchi (Trenta francs pal cine / i siòrs da olmà), come Ninni che vende anche i suoi bei occhi turchini al padrone pur di sopravvivere. La meglio gioventù, fatta di poveri cristi appesi a una croce con una tuta blu unta di lavoro (Non gò corajo de ver sogni: / il blù e l’onto de la tuta, / no altro tal me cuòr de operajo). Giovani che affollano la stazione di Casarsa per salire su un treno e raggiungere il mondo esterno che intanto corre veloce. Battiston riesce egregiamente non solo nell’impresa di incantare lo spettatore servendosi di un mezzo ostico come può essere la poesia dialettale, ma di indurlo anche alla riflessione.
Al termine dello spettacolo ci si sente uno dei ragazzi di quella meglio gioventù e ci si chiede: per cosa abbiamo scelto di spezzare le nostre radici?
Vegnèit, trenos, ciamàit          Venite, treni, caricate
Cui so blusòns inglèis                Coi loro blusoni inglesi
Vegnèit, trenos, puartàit           Venite, treni, portate
A sercià par il mond                   A cercare per il mondo
Puartàit, trenos, pal mond       Portate, treni, per il mondo
Chis-ciu legris fantàs                 Questi allegri ragazzi
Chis-ciu fantàs ch’a ciàntin      Questi giovani che cantano
E li majetis blancis,                    E le magliette bianche.
lontàn la zoventùt                       Lontano la gioventù,
chel che cà a perdút.                   Ciò che qui è perduto.
Paràs via dal país,                       Scacciati dal paese
a no ridi mai pí.                           A non ridere mai più.

di Martina Annibaldi

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