Sommergibili nucleari

Dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo i timori della guerra fredda, dopo i gravi incidenti nucleari, da Three Mile Island a Cernobyl a Fukushima, la paura nucleare ha segnato in profondità l’immaginario collettivo.

La consapevolezza del rischio è diffusa. Il nostro paese ha abbandonato la produzione di energia nucleare nel 1987 e ovunque nel mondo la presenza di una centrale nucleare mette in allarme le popolazioni che vivono nelle vicinanze. Tutto questo ha portato all’adozione di misure di riduzione del rischio.

Una di queste impone, come requisito fondamentale nella fase di individuazione del sito, che intorno ai reattori nucleari sia prevista una zona di esclusione, dove cioè non sia presente la popolazione civile, e un’area più vasta dove è richiesta una scarsa densità di popolazione.

Più in generale, la normativa prevede che i cittadini potenzialmente esposti a materiale radioattivo vengano informati sulle misure di protezione applicate, sui possibili effetti sulle persone e sull’ambiente e sui comportamenti da adottare nel caso di incidenti.

Capita però che le zone di esclusione vengano abbattute senza che i cittadini ne sappiano nulla.

Succede che navi e sommergibili a propulsione nucleare – come quelli utilizzati nell’attacco portato dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia contro le presunte installazioni chimiche siriane – attraversino i corridoi marittimi più trafficati e sostino nei nostri porti, in aree decisamente popolate, per di più accanto a depositi di carburante, raffinerie e industrie chimiche.

L’energia che alimenta queste macchine da guerra è prodotta da reattori simili a quelli delle centrali nucleari e pongono, quantomeno, gli stessi problemi di sicurezza.

Difficile misurare il rischio specifico di questi reattori perché il segreto militare rende difficile acquisire informazioni, ispezionare gli impianti, effettuare analisi. È però facile comprendere che l’impossibilità di montare a bordo le schermature di cemento e calcestruzzo come quelle impiegate sulle centrali civili, la pericolosità degli armamenti trasportati, l’ambito di attività di mezzi militari accresce il rischio di incidenti nucleari.  Il più temibile dei quali, la fusione del nocciolo, produrrebbe un rilascio di radioattività che sia in atmosfera sia sull’ecosistema marino con effetti devastanti a breve e a lungo termine.

Bene, anzi male, uno di questi – il sottomarino d’attacco Uss John Warner – il 20 marzo era in rada al largo di Napoli.

Il sindaco della città, Luigi de Magistris ha protestato con la Capitaneria di Porto in forza di una delibera comunale che dichiara quelle acque area denuclearizzata e vieta l’attracco e la sosta di qualsiasi natante a propulsione nucleare o che contenga armamenti nucleari. L’Autorità Marittima non ha potuto che rispondere che le decisioni sull’arrivo e sul transito delle unità navali militari straniere nelle acque territoriali nazionali non sono di sua competenza.

Questo è il campo di sovranità, alleanze militari e ragion di stato e difficilmente basteranno ordinanze comunali e Capitanerie di porto per difendere i cittadini dal rischio del nucleare militare.

Questi sono tempi di guerra permanente, tempi in cui il diritto ad essere informati, e tutelati, va difeso e mai dato per acquisito.

di Enrico Ceci

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