Josephine, che Kafka sentì cantare

Entri nel teatro e cerchi il tuo posto numerato, ma sei già nello spettacolo. Dal fondo della scena – bianco spazio geometrico aperto senza sipario – giunge un brusio di voci, di parole indistinte. Proprio come quello che produci tu insieme a tutte le altre persone che stanno entrando e cercando il loro posto a sedere. Somiglianze di famiglia acustiche, ronzii, squittii, sibili. Come la fabula de te narratur, così la racconta anche l’iniziale murmur, fremitus vocalis. Davanti agli spalti con poltroncine per il pubblico giace la spazio-scena: un piano-schermo verticale trasparente opaco; uno orizzontale con quadrati e rettangoli alla Mondrian, ma senza colori: solo bianco e nero.

Tamara Bartolini, autrice, regista della pièce, appare così nel murmur di sala e, senza il benché minimo fremitus, anzi dolcemente, scivola di lato, nell’angolo sinistro del piano orizzontale, a un tiro di squittio dal suo pubblico. Va a una scrivania lignea con i cassetti che danno in fuori, con una lampada e un piccolo peluche sopra. Dal piano trasparente verticale intanto il brusio di fondo prende forma distinta di parole, frasi, voci. Tra noi popolo seduto – ormai nella penombra – si riconosce qualcuna di quelle voci. Tamara attiva poi un microfono e la sua voce ci appare. È una delle voci più belle, alabastrine del teatro italiano contemporaneo. In grado di leggere, recitare un testo, conferendogli patos sonoro, corporeo partecipativo. Inizia a leggere, dire di Josephine, la cantante o il popolo dei topi. È l’ultimo racconto di Franz Kafka. L’ha scritto qualche mese prima di sparire tra le pagine di uno dei tanti calendari temporali: quello del 1924. Un racconto, una favola di topi. Dopo quella su uno scarafaggio. O quella su un ‘aggeggio’ chiamato Odradek. Dare voce a chi non ce l’ha, a chi è stata tolta, soffocata, è uno dei compito dell’arte per Walter Benjamin. La voce della giustizia, ossia l’intangibilità di ogni singolarità e nella sua rete di relazioni esistenziali.

Come mai questa estrema fiaba basso animalesca di Kafka ogni tanto esce dalla tana della bidimensionalità delle sue pagine e si spazializza tridimensionalmente in teatro? In Italia possiamo citare Toni Servillo nel 2011, al Teatro Romano di Benevento; e nel 2019, organizzato da Radio Sherwood, al Vapore di Marghera, un reading musicato con la voce narrante di Francesco Ventimiglia, quella sopranile di Stella Mikrouli e il pianoforte di Marco Ponchiroli. E oggi Bartolini/Baronio al teatro India di Roma. Ognuno con la sua lettura, le sue sottolineature ermeneutiche, il proprio sviluppo dei temi stringati dentro il racconto. Anche se – come scrive Walter Benjamin – nel suo saggio per il decennale della morte di Kafka: “Egli ha preso tutte le misure possibili contro l’interpretazione dei propri testi. È con riguardo, cautela e diffidenza che bisogna avventurarsi nel loro interno”. Forse – dato che anche essi fanno parte dei testi – a partire dai titoli. Come quello dell’opera qui in scena: Josephine, la cantante o il popolo dei topi. Ossia Josephine e il popolo dei topi sono vicendevolmente l’una l’alter ego dell’altro.

Dallo schermo di fondo, ci appare la grande cantante jazz afroamericana, militante per i diritti del suo popolo, Nina Simone. La vediamo in un raro, se non inedito pezzo di un suo concento in cui si accompagna da sola al pianoforte. È un brano inserito in un documentario su di lei, in cui significativamente afferma: “La libertà è vivere senza paura”.

Dietro dallo stesso fondo-schermo, vediamo intanto Michele Baronio che si appresta a dare la sua voce a chi non ce l’ha. Per farlo deve somatizzarsi a ratto: lo fa mostrandosi, dietro l’angolo estremo dell’opaca trasparenza a media luz, mentre indossa orecchie e ventre prominente da topo, dentro una stretta giacca grigia da vero spleen kafkiano. Poi esce sul piano-scena, inizia la sua rabdomantica performance da ratt’attore, balzando-ballando con i movimenti e le battute tra i quadrati e i rettangoli a terra; squittendo, fischiando, schiacciando un cumulo di noci che si lascia cadere dalla protesi ventrale stretta tra lo stomaco e la giacca da impiegato praghese processato all’inizio del ’900. E l’imposizione delle mani, delle dita nude della regista su un proiettore rasoterra ricama tali mobili ombre sul performer Baronio, che niente potrebbe meglio richiamare le kafkiane Metamorfosi, trasformazioni infimo-animalesche di quell’impiegato.

A differenza di Nina Simone, però, Josephine non sa proprio cantare, non sa neanche fischiare, squittire in modo dissimile da ogni altro topo. Anzi, a volte meno del comune fischiare medio. Lei è il suo popolo, ossia la totalità, la somma delle incapacità di ogni suo singolo componente a possedere una qualche particolare virtù. C’è un arte, per esempio, nel nostro comune schiacciare una noce sotto il tacco o la suola? E qui Michele Baronio dà contenuto alla scena-spazio nei termini di un recitar fischiando e noci schiacciando, quale variazione funambolica del classico del recitar cantando.

Bartolini/Baroni stratificano contenuto nella forma scenica, perché ogni singolo ratto desidera, non solo saper cantare, ma eccellere virtuosisticamente nel canto. Non è dato, però, alla sua specie, ché essa può desolatamente appena squittire. Così il popolo deve proiettare questo suo impossibile desiderio, concretandolo, materializzandolo in un che di bio-corporeo. Questo, però, deve essere una figura esattamente come essi sono: incapace di cantare. Altrimenti sarebbe una troppo remota fantasmagoria divina, non una credibile realtà topina.

La relazione d’identità contenuta nel titolo Josephine, la cantante – o – il popolo dei topi, mette l’artista, l’attore sulla stessa traiettoria destinale del dittatore. Non a caso il mondo ha cominciato a vermicare di popul’attori, che hanno risposto alla viscerale chiamata politica del ventre cunicolare. Connesso alla paura, da cos’altro non può essere libero il popolo? Dal lavoro. Kafka dedica a questo nodo uno spazio semantico cruciale nel racconto. Non tanto nel canto, nel fischiare – ché lei non ne è proprio all’altezza –, quanto nel suo esclusivo non lavorare, Josephine soddisfa l’unica, autentica aspirazione di ogni singolo incapace ratto suo simile. Da tale ambizione discendono tutte le altre speranze – o illusioni. E chi meglio del dittatore incarna tale miraggio? L’autocrate è tanto più ab-solutus, sciolto dal lavoro, quanto più può imporlo agli altri. Il suo non faticare, infatti, può – e deve – rifulgere soltanto se c’è la massa buia di chi non può fare a meno, per necessità, di scavare dentro, sotto la terra, legato a essa tra cloache e sterquilìnii.

La forza della legge – altro tema-talpa sottostante tutta l’opera di Kafka – decreta, impone la colpa, il debito del lavoro. Nella pièce si concreta in un enorme catafascio di fogli accartocciati che Michele Baronio vorticosamente legge e getta via, mentre un ventilatore ai suoi piedi li trascina verso le macerie della storia, schiacciate come quel mucchio di noci rimaste per terra, là in fondo, scuotendogli la giacchetta e l’anima.

Nietzsche ci ha chiarito che debito e colpa in tedesco risuonano della stessa radice semantica: Schulden und Schuld. Chi non risarcisce un debito deve scontare il dolore, la pena della colpa. E più forte, atroce la sofferenza, più essa resta marchiata a fuoco nell’inconscio, nella pelle del divenire, nell’aberrazione ottico-mentale del tempo stesso, quale assurdo processo senza fondamento imposto a K., lo scarafaggio, il ratt’impiegato, che muore colpevolmente innocente come un cane sotto la luna. Il tiranno è anche nel guardiano sulla soglia del castello che sbarra l’accesso nella storia al rifiuto del lavoro: al popolo – sive – all’artista, quale concrezione del suo più incandescente sentimento.

Il sive, la ‘o’ tra artista e popolo, mostra che la relazione è una sotterranea struttura bifronte. Così come il vero dittatore non è un singolo, ma un intero sistema biunivoco di potere. Come le adunate e le angustie terrene, di cui scrive nel finale Kafka: riservate entrambe ai personaggi eletti, quale è la scarsa fischio-cantante Josephine. Eletti, ossia elevati dal popolo; agiti, nel senso biunivoco del verbo. Nel monologo finale Michele Baronio si spoglia dal suo sembiante di topo. Il canto poetico-teatrale delle afflizioni terrene si eleva anch’esso; il popolo lo elegge, lo agisce, lo fa riecheggiare come sintonico monologo interiore attore-pubblico. Ché il dominio, la violenza del profitto, del patriarcato cerca spasmodicamente la natura, ogni femminile e ogni altra fragile esistenza in essa, per eleggerle a gusci di noce da schiacciare sotto i piedi. Solo nominando, indicando per decreto cosa e chi è debolezza, si può infatti proclamare, imporre e far rifulgere su cielo, mare, terra, sottosuolo, parola e pensiero la propria forza, sive, la propria follia in forma di potenza. In questo vero sottosuolo della civiltà uomini e topi si ritrovano insieme: nei sottoscala, nei sotterranei, sulle banchine della metropolitana. Cercando riparo dalle bombe umane sui topi uomini, sugli uomini gusci di noce.

Scrive Kafka nelle ultime righe del racconto: “Non ha invece il popolo nella sua saggezza collocato in alto il canto di Josephine appunto perché era impossibile andasse perduto?”. Così l’autrice-lettrice-auditrice sfuma il monologo pubblicamente interiore dell’attore, riconsegnandolo all’iniziale brusio che ora torna a provenire dal fondo scena. Murmur che – dopo il clamor, la gloria degli applausi – sarà anche nostro, mentre gioiosamente sciamiamo fuori dalla sala, innumerevole moltitudine di eroi verso una liberazione superiore, che neanche la trappola del tempo potrà obliare.

di Riccardo Tavani

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