Bruno Neri, partigiano-mediano

Lamberto

Ci sono foto che valgono più di mille parole. Una di queste è quella scattata il 10 settembre 1931 a Firenze.  In campo ci sono Fiorentina e Montevarchi, sullo sfondo c’è uno stadio ancora in costruzione. L’amichevole infatti sarà disputata per inaugurare il nuovo impianto, dedicato allo squadrista Giovanni Berta.
Un occasione particolare, un giorno importante. Non di certo però per Bruno Neri, l’unico, nella foto, a tenere abbassato lo stesso braccio che i suoi compagni di squadra alzano per salutare i gerarchi fascisti.
La Fiorentina l’ha pagato 10.000 lire dal Livorno, è un mediano come ne nascevano solo all’epoca. Quelli che ai nostri giorni saranno cantati da Ligabue in “una vita da mediano / da chi segna sempre poco”. Proprio come Bruno Neri, che in quasi duecento partite con la maglia viola segnerà soltanto un gol.
Ma per lui il calcio è solo una passione, che però gli consente di andare avanti. Il cibo per la mente, Neri, se lo va a prendere a spasso per musei e città d’arte, nelle sue frequentazioni con il circolo delle Giubbe Rosse, nelle amicizie con Montale e Campana.
È qui che matura la sua personale avversione al regime. Un sentimento che cova nel profondo, sempre più forte, soprattutto quando le leggi razziali del 1938 lo privano del suo più grande allenatore: Ernest Erbstein, tecnico ebreo-ungherese, che lo portò con se a Torino.
Dopo l’armistizio del 1943, per Bruno Neri si aprivano due strade: continuare a giocare a pallone, con ormai addosso la fama e il talento da campione, ma con l’obbligo di servire e riverire il fascismo. Oppure arruolarsi nella lotta clandestina.
Sarà suo cugino Virgilio ad inserirlo all’interno dell’ORI, Organizzazione Resistenza Italiana, dove confluisce nel Battaglione Ravenna. Farà la spola tra le montagne dell’appenino tosco-romagnolo e il campo da calcio. Mediano in campo, partigiano tra i monti.
Due ruoli in cui hai bisogno di fiato e cuore, di testa e di gambe. Un lavoro sporco, non quello della grande punta che insacca gol a raffica e nemmeno del portiere para rigori. Sul campo da calcio come nei sentieri, Bruno Neri fa un lavoro di polmoni e sudore.
È la mattina del 10 luglio 44 quando sta perlustrando un cammino che avrebbe dovuto percorrere il suo battaglione. Insieme a lui c’è Vittorio Ballenghi, ex ufficiale dell’esercito e comandante di brigata. All’improvviso una raffica di spari gli trancia le gambe. Le stesse con cui aveva solcato i campi di tutta Italia e che fino a qualche giorno prima avevano corso nello stadio di Faenza, oggi intitolato a lui.
Chissà cosa stava pensando quando fu inondato dai proiettili. Forse alla nuova poesia dell’amico Eugenio oppure alla prossima partita di campionato. Sicuramente nell’animo aveva paura e determinazione. Le stesse di quel 10 settembre, di quell’attimo regalato alla storia. Le braccia distese, le mani lungo i fianchi. Ferme, decise, sicure. Proprio come lui.

di Lamberto Rinaldi

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