La Marcia delle Donne

Sono cristiane, ebree, musulmane. Un fiume di vesti bianche. Pelli chiare, pelli scure, hiyab, chador, labbra rosse e pallide, chitarre, cartelloni, canti, palloncini, ancora bianchi. Sono donne. Migliaia di donne che marciano attraverso Israele, percorrono 200 chilometri per arrivare a Gerusalemme. Sono le donne del Movimento delle Donne per la Pace (Women Wage Peace), nato da un piccolo gruppo di israeliane nell’estate del 2014 dopo quell’OperazioneTzuk Eitan che causò 73 morti israeliani e 2200 palestinesi in 50 giorni. Un movimento senza leader, cresciuto attraverso i Social e che, ad oggi, vede l’adesione di migliaia di donne provenienti da qualsiasi Paese, di ogni fede e posizione sociale unite da un’unica richiesta: rendere concretamente possibile la fine del conflitto arabo- israeliano per un futuro fatto di pace ed armonia tra popoli diversi. “La pace non è un’utopia”, si legge a grandi lettere sulla loro pagina online (http://womenwagepeace.org.il/en/).

“Non ci fermeremo finché non sarà raggiunto un accordo politico che porterà a noi, ai nostri figli e ai nostri nipoti un futuro sicuro” e non si fermano le donne del Women Wage Peace. Lo scorso anno, in occasione della commemorazione dei bombardamenti su Gaza del 2014, fu l’Operazione Digiuno. Per 50 giorni, la durata dell’operazione militare, scelsero di digiunare a turno di fronte alla residenza del Primo Ministro Israeliano, Benjamin Netanyahu. Quest’anno, dopo 14 giorni di marce lungo tutto il Pese, si sono ritrovate nello stesso identico punto a chiedere ancora una volta che non ci si rassegni a considerare la guerra come uno stato normale delle cose ma che le popolazioni si impegnino attivamente affinché si raggiunga uno stato di pace, affinché una risoluzione politica diventi prioritaria. Alla base di questo progetto ci sono le donne. Donne israeliane e palestinesi, madri a cui sono strappati dei figli, mogli di mariti portati via dalla guerra, donne vendute, stuprate, abituate a convivere col lugubre rintocco delle deflagrazioni. Per queste donne non esistono differenze religiose o culturali. Sono madri, tutte. Anche quelle senza figli. Sono madri di una terra che merita speranza, sono madri delle generazioni che verranno, del destino che le attende. C’è forse in noi donne un senso materno che non ha nulla a vedere con la procreazione. Un senso materno che ci spinge ad interrogarci sul destino dei figli, tutti. Sulle responsabilità che abbiamo nei confronti di quei figli, su quello che stiamo lasciando loro in eredità. L’hanno chiamata La Marcia delle Madri, Prayer of the Mothers l’inno che l’ha accompagnata, perché nella compassione e nella forza di una madre ognuna di noi sappia riconoscersi.

“La pace è possibile quando le donne si alzano per il futuro dei loro figli”, la voce è quella di Leymah Gbowee, l’attivista liberiana che contribuì alla riconciliazione nazionale del suo Paese dopo la guerra civile. Non è solo un’utopia, non è solo una marcia. È una strada che qualcuna di noi ha iniziato a battere, per un futuro diverso. Una strada che non deve terminare a Gerusalemme

di Martina Annibaldi

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