C’è ancora bisogno dell’antifascismo?

Il governo Mussolini si è insediato nell’ottobre 1922. Un secolo dopo, nell’ottobre 2022, si è insediato il governo Meloni. È certamente un caso fortuito, ma così peculiare che mi ha portato alla mente il concetto junghiano di sincronicità. Mi è sembrata, voglio dire, una coincidenza significativa, e penso che non pochi esponenti di questo stesso governo l’abbiano vissuta come tale.

A un secolo di distanza, certamente, ci sono delle differenze tra i due governi, sotto il profilo sia politico che ideologico. Ma ancor oggi gli oppositori (non tutti, per carità) fanno appello all’antifascismo, mentre la maggioranza cerca di ridicolizzare questa posizione con un sillogismo semplice ed efficace: poiché il fascismo “è stato consegnato alla storia” e non esiste più dal 1945, parlare di antifascismo è solo fuffa, finalizzata a coprire la mancanza di idee e di critiche serie da parte dell’opposizione.  

Vi dico la verità, mi piacerebbe molto che fosse così. Ma andiamo per ordine.

Nel 1946, solo un anno dopo la supposta fine del fascismo, un gruppo di veterani della Repubblica Sociale Italiana – tutti di provata fede fascista, alcuni con le mani sporche di sangue degli antifascisti italiani – fondarono il Movimento Sociale Italiano, «in opposizione al sistema democratico per mantenere viva l’idea del fascismo (1)», rappresentata simbolicamente dalla fiamma tricolore che arde ancora sul logo di Fratelli d’Italia. 

Negli anni 70 e 80 del Novecento fiorisce la strategia della tensione. Sono numerosi gli attentati ai quali, dopo lunghi anni di indagini e processi, si riconosce la matrice neofascista: Banca dell’Agricoltura, Piazza della Loggia, Italicus, Stazione di Bologna, più una miriade di attentati minori. 

No, non possiamo proprio dire che il fascismo sia morto nel ‘45. Ha assunto aspetti diversi, in alcuni casi violenti ed estremi, in altri casi più politici o, come si diceva in passato, “in doppiopetto”, ma certo non si può dire che sia morto. 

Ma anche fuori d’Italia nascono movimenti di ispirazione fascista. Penso a Vox, con le sue evidenti nostalgie del franchismo, inizialmente finanziato dai Mujaheddin del popolo, dalla fondazione Francisco Franco e dall’associazione ultracattolica di estrema destra Hazteoir (“fatti sentire”). Un partito cui FdI si è dimostrato molto vicino. Alba dorata, il partito di estrema destra greco, aveva invece più spiccate simpatie per il nazismo, di cui utilizzava l’inno (l’Horst-Wessel-Lied), oltre ad avere una svastica stilizzata sul simbolo. Fortunatamente è stata sciolta perché riconosciuta come associazione per delinquere, implicata in omicidio, tentato omicidio e altri reati. In Germania nel 1964 è nato il partito Die Heimat (La Patria), considerato di ispirazione neonazista, che non è riuscito ad avere rappresentanti in parlamento, ma è tuttora attivo, grazie alla sentenza della Corte costituzionale tedesca, che lo ha giudicato “impossibilitato a realizzare, in virtù della sua insignificanza nell’attività politica,” i suoi obiettivi “ostili alla Costituzione”, che pure sussistono. Ogni anno, a febbraio, in Ungheria si tiene la manifestazione del “giorno dell’onore”, che raccoglie neonazisti da tutt’Europa per ricordare i nazisti ungheresi e tedeschi che combatterono a Budapest contro l’armata rossa. Per finire, persino Anders Behring Breivik, autore delle sanguinose stragi di Stoccolma e Utøya, si presentava alle udienze alzando il braccio nel saluto fascista, tanto per far capire da che parte stesse. 

Ma anche la cronaca ci ha recentemente offerto manifestazioni più folcloristiche di neofascismo. Penso ai tifosi della Lazio, che facevano il saluto fascista al grido di “duce! duce!” nella storica birreria di Monaco, dove Hitler fondò il partito nazionalsocialista tedesco. 

Già, cerchiamo di non dimenticarlo: il braccio alzato non è un saluto romano, gli antichi romani non l’hanno mai fatto. Né si rifà a un’usanza militare, come ha affermato l’assessore La Russa dopo il noto funerale di Milano. Qualcuno cerca di farci credere che non sia vero, ma soltanto fascisti e nazisti salutano così, e lo fanno come segno identitario, qualunque sia il motivo del loro incontro. E questo vale anche per il rito che ogni anno si ripete in via Acca Larentia.

 (1) Piero Ignazi, Il polo escluso: profilo storico del Movimento sociale italiano, Il Mulino, 1998

In conclusione, credo che il fascismo esista ancora, più o meno sotterraneamente, in tutta Europa, nel pensiero e nell’attività di una non trascurabile minoranza di persone, direttamente o indirettamente collegate ad alcuni partiti politici. 

Con buona pace di Meloni, La Russa, Terranova e persino di Calenda, non solo si può, ma si deve, purtroppo, ancora parlare di antifascismo.

La domanda vera è se il governo di destra costituisca un pericolo per la democrazia ed eventualmente in che modo, visto che il mondo è cambiato parecchio negli untimi cent’anni. Le differenze ci sono, ed eclatanti: per esempio, non girano le squadracce fasciste a manganellare e purgare gli oppositori, non c’è stata la marcia su Roma, nessun avversario politico è stato barbaramente ucciso.  

Vi sono, però, alcuni punti di contatto tra gli anni 20 del Novecento e quelli del XXI secolo. Anche allora c’erano molti partiti, più di dieci a livello nazionale, ed era difficile tenere in piedi i governi. Per garantirne la stabilità – e, soprattutto, per garantirla al governo Mussolini – si pensò ad una riforma elettorale, la famigerata legge Acerbo, che regalava i due terzi dei seggi parlamentari a chi raggiungesse il 25% dei suffragi. A sentirlo oggi, sembra una barzelletta, ma la legge fu approvata anche con il contributo di partiti diversi da quello fascista mentre, ovviamente, il governo poneva la questione di fiducia. Peccato che la stabilità di quel governo, durato un ventennio, sia servita a conculcare ogni libertà democratica, a deportare gli ebrei, a distruggere il Paese con una serie insensata di sanguinose guerre d’aggressione: a ben pensarci, la stabilità di governo non sempre è un bene. È invece un bene che il potere del governo abbia efficaci contrappesi e che non sia inamovibile.  

Oggi si vuol garantire la stabilità dei governi con la riforma costituzionale del cosiddetto “premierato”, che la Meloni ha definito “la madre di tutte le riforme”, parafrasando – immagino del tutto involontariamente – una frase di Saddam Hussein. Personalmente, ho l’impressione che la riforma serva a qualcosa di più che non alla stabilità di governo. Questa è garantita, per esempio in Germania, dall’istituto della “sfiducia costruttiva”: basterebbe introdurlo anche da noi, senza bisogno di disfare la Costituzione. E infatti in Germania i governi sono stabili, anche se di coalizione. D’altronde, il governo attuale mi sembra già stabile, grazie alla vigente (e pur discutibile) legge elettorale. Il vero risultato della riforma sarebbe, invece, la riduzione dei contrappesi, perché renderebbe le altre Istituzioni (Parlamento e Presidenza della Repubblica) subalterne al cosiddetto “premier forte”, eletto direttamente dal popolo: con una percentuale di suffragi, peraltro, non ancora stabilita. Infatti, una parte degli eletti sarebbe “trascinata” dal premier con il premio di maggioranza che, sebbene ancora non definito, è parte integrante della riforma; detto in altre parole, una quota di parlamentari dovrebbero al premier l’elezione, con buona pace della loro indipendenza. 

Quanto al Presidente della Repubblica, non soltanto non avrebbe più il potere di nomina nei confronti del governo, ma sarebbe più debole in quanto espressione di un parlamento subalterno. Sarà per questo che il sistema non esiste in nessuna parte del mondo e che in Israele, dove era stato istituito, è stato prontamente revocato?  

Forse un sistema di questo tipo non può essere chiamato dittatura, ma certo non è più democrazia. 

Se un secolo fa il regime poteva imporre ai giornali direttori ben allineati (fu clamoroso il caso de La Stampa di Torino), oggi il governo ha la possibilità di condizionare un gran numero di organi di informazione e di intrattenimento; e non poche testate giornalistiche e reti televisive sono già allineatissime con la politica governativa, cui fanno da cassa da risonanza piuttosto acritica. Oggi non ci sono le “squadracce”, ma usare il manganello contro gli oppositori, anche se minorenni e molto poco minacciosi, è considerato difendere lo Stato di diritto, di cui al contrario quegli abusi sono la negazione. Ma la dignità dello Stato di diritto viene meno di fronte agli assurdi provvedimenti contro le ONG che operano il soccorso in mare, o alle inopportune rivelazioni del duo Delmastro-Donzelli, o ai presunti conflitti d’interesse di Crosetto, o alle pessime figure internazionali del ministro Schillaci con le sue dubbie pubblicazioni scientifiche.

Già oggi il potere del governo è esuberante rispetto al parlamento, cui detta gran parte dell’agenda con i decreti e i propri progetti di legge, cui spesso blocca la possibilità di discutere ed emendare imponendo il voto di fiducia, cui fa ripetere le votazioni quando qualche assenza di troppo lo mette in minoranza.

Insomma, la riforma del premierato sembra davvero esagerare i poteri dell’esecutivo e ci metterebbe su una china sdrucciolevole, dove fermarsi sarebbe difficile, chiunque fosse al governo. D’altronde è con provvedimenti di questo tipo che iniziano non solo le dittature vere e proprie, ma anche i loro più moderni e subdoli equivalenti.

Perciò, scusate se lo grido anch’io: viva l’Italia antifascista.

Cesare Pirozzi

 

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