I treni della felicità

BaronciniQuesta è una storia poco nota, una storia piccola, ma che racconta la voglia grande dell’Italia -provata dalla guerra- di sopravvivere alla miseria. Simbolo e colonna sonora di questa storia sono i treni in movimento, col loro sferragliare, i treni “speciali”. Gli stessi convogli che avevano portato i soldati al fronte e gli ebrei ai campi di concentramento tra il 1945 e il 1947 spostarono nel chiuso dei loro vagoni circa 70mila bambini da Sud a Nord del Paese, li tolsero dalle macerie dei bombardamenti e li depositarono sulle banchine delle stazioni dell’Emilia Romagna, della Liguria e della Toscana. All’arrivo quei bambini non trovarono, come si raccontava allora, i comunisti che mangiano i bambini, ma circa 70mila famiglie comuniste e non, disposte ad accoglierli, a curarli, vestirli e mandarli a scuola, a sottrarli per qualche mese o per qualche anno alla fame, al freddo, alla miseria, e poi rimandarli a casa, in salute, in cambio di niente.

La liberazione dell’Italia era durata un tempo molto lungo (iniziata in Sicilia nel luglio del ’43 era finita nell’aprile del ‘45) e aveva lasciato dietro di sé uno stallo economico, uno strascico di distruzione che aveva segnato tutta la popolazione e in particolare gli strati più deboli. I bambini, come in ogni tragedia, da innocenti scontavano il peggio. Chi ha letto “La Pelle” di Curzio Malaparte sa che in quegli anni a Napoli costava poco la carne italiana: quattro dollari una ragazza, tre una bambina, due un bambino, ben cinque e mezzo un chilo di carne d’agnello al mercato nero. Nati sotto i bombardamenti, ridotti al vagabondaggio, cresciuti nella sciagura della prostituzione e del mercato nero, senza cibo, spesso senza un tetto, quei bambini rappresentavano un futuro già compromesso e costituivano un’emergenza nazionale.

Se i simboli di questa storia sono i treni, i protagonisti sono i bambini, la mano che la scrisse fu una mano femminile. A credere a questa avventura furono le donne: un gruppo di attiviste dell’ UDI, Unione Donne Italiane, chiese alle famiglie contadine del Nord di ospitare i bambini più miseri del Sud appellandosi alla storica attitudine all’accoglienza tipica delle famiglie di campagna, quelle con tanti figli e riassunta in un detto emiliano che suona così : in do ‘s magna in sé, as magna anch’in sètt. (dove si mangia in sei, si mangia anche in sette).
Furono quindi le donne a mettere in moto quei treni speciali, a caricare i bambini, ad assegnarli alle nuove famiglie, a muovere una complessa macchina organizzativa nazionale che coinvolse altre donne e le legò per sempre: da una parte le madri naturali, costrette dalla fame a consegnare i propri figli al destino, dall’altra le madri affidatarie, volontarie e garanti, che di quel destino si fecero viso, mano e cuore.

Il primo convoglio partì da Roma, Stazione Termini, il 19 gennaio del ’46. Portava 1200 bambini, chissà che facce ai finestrini! Piccoli, dai 4 ai 9 anni, il nome cucito sull’abito per poi un giorno tornare a casa, venivano dai quartieri più poveri della capitale, ma anche da Latina, Terracina, Formia, Gaeta, Sperlonga. Seguirono molti altri treni dal Centro e dal Sud, da Napoli soprattutto. Vagoni e vagoni che cullarono sui binari un’infanzia rachitica, carente di vitamina C, sottoalimentata, provata da malattie reumatiche e respiratorie, gli occhi rovinati dal tracoma per le scarse condizioni igieniche. Li chiamarono i Treni della Felicità: convogli che rubavano i bambini alla povertà e li trasferivano in un mondo nuovo, mai visto.
” Quando arrivammo a Modena io dormivo, mi svegliarono le grida stupite degli altri bambini. Guarda quanto latte! No, è zucchero! É ricotta! ” Bambini che non avevano mai visto la neve, che non avevano mai mangiato tre volte al giorno, né dormito in un letto con le lenzuola, vestito un abito pulito, entrarono in case nuove dove la vita non era ricca (la guerra non aveva risparmiato nessuno), ma dignitosa. Ripresero forza, mangiarono, andarono a scuola. Poi tornarono a casa.

Di quei legami affettivi destinati a sciogliersi, di quello sforzo economico di tante famiglie, di quella sutura tra Nord e Sud cucita dai treni, di tutta questa storia non si è quasi più parlato. L’aiuto all’infanzia mosso dalle donne, custodito nel cuore delle famiglie, forse è volutamente rimasto nell’intimità delle case, o forse l’abbiamo dimenticato perché abbiamo voluto dimenticare in blocco tutta la miseria di quegli anni. Cosa dovremmo invece ricordare?
Prima le donne e i bambini di allora, la loro voglia di vivere: le mani, i saluti, i nasi appoggiati sui vetri, gli occhi su panorami diversi in viaggio tra miseria e nobiltà, l’amore materno capace di rinunce incredibili, il pane fatto in casa da spezzare, la solidarietà degli umili che lavora in silenzio, la capacità di crescere un figlio non tuo.
E poi i treni. Nel loro andivenire su e giù per la penisola i Treni della Felicità condussero per la prima volta le donne sui binari della vita politica. L’altra metà del cielo aveva dimostrato di saper gestire l’emergenza, di sapersi occupare di temi prettamente femminili ma non per questo meno importanti di altri: l’infanzia e la scuola. Furono loro le protagoniste della riattivazione di un sistema scolastico che nell’Italia della Seconda Guerra Mondiale era scomparso.

di Daniela Baroncini

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