Giuseppe Uva: una vittima dello stato

Il rischio è che non sia fatta giustizia

Giuseppe Uva era ubriaco, la sera in cui assieme all’amico Alberto Bigioggero piazzò alcune transenne in mezzo a una strada di Varese, la sua città. Una guasconata, come l’ha definita lo stesso Bigioggero. Non è certo che ci fosse qualche screzio precedente tra Uva e le forze dell’ordine, fatto sta che all’arrivo della volante dei Carabinieri, l’amico e unico testimone racconta che uno degli ufficiali disse: “Uva, stanotte proprio te stavo cercando, questa me la paghi”. Era la notte tra il 14 e il 15 giugno 2008. Li portarono in caserma, tenuti in due stanze separate. A un certo punto Bigioggero cominciò a sentire le urla dell’amico, dall’altra parte del muro, e chiamò il 118 chiedendo un’ambulanza. Nella registrazione disse: “stanno massacrando un ragazzo, qui in caserma”. Poi l’operatore chiamò direttamente i Carabinieri e chiese spiegazioni. Gli risposero di non preoccuparsi, che stavano avendo problemi con due ubriachi e che gli avrebbero tolto il cellulare. Qualche ora dopo, saranno proprio gli uomini dell’Arma, accompagnati da sei colleghi della Polizia chiamati in aiuto, a portare Uva in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio.

Una testimone oculare ha recentemente affermato che Uva arrivò quella mattina in ospedale malfermo e sorretto dalle forze dell’ordine, mentre gridava “bastardi!” e cercava di divincolarsi. Loro allora lo avrebbero portato in una stanza, promettendo: “ora gli facciamo una menata di botte”.

Cosa sia successo da quel momento in poi non è dato saperlo. Di certo lo rivedranno le sorelle, steso sul lettino dell’ospedale, coperto solamente da numerose ed estese macchie viola sul corpo, e da un pannolone. Chiedendosi il perché di quel pannolone, scostandolo scopriranno l’inguine deturpato del fratello. Testicoli frantumati e ano sanguinante. Morto, a 43 anni. Lì accanto, tra i vestiti, troveranno i pantaloni macchiati di sangue all’altezza del cavallo.

Si sta ancora cercando di ricostruire esattamente cosa sia accaduto, e di fare giustizia. Le cause della morte sarebbero dovute a un complesso di fattori esterni che hanno scatenato un collasso cardiaco: stato di ebbrezza, stress emotivo, lesioni.

Quante volte abbiamo sentito la storia delle lesioni auto inflitte, del “è caduto dalle scale” (o dalla finestra, magari)? Ma come può un uomo con qualche birra in corpo rappresentare un pericolo per ben otto rappresentanti delle forze dell’ordine, tale da costringerle a massacrarlo di botte? Come avrebbe potuto Giuseppe Uva autoinfliggersi bruciature di sigaretta sul collo? E con quale premeditazione, e quanta forza di volontà, avrebbe deciso di martoriare il proprio inguine, di arrivare a sanguinare dall’ano?

È stata anche avanzata l’ipotesi che Giuseppe sia stato sodomizzato. Ma sapremo mai la verità, in questo clima di omertà e di strenua difesa di simile tra simile?

Per mettere fine alle polemiche, sarebbe ora che lo Stato vegliasse sui propri organi, e che i violenti e gli inadeguati fossero giudicati con imparzialità e allontanati. L’esercizio della Forza pubblica non può più essere la valvola di sfogo di sentimenti personali e personali frustrazioni. Perché così deve essere, e perché atti del genere non gettino ombra sull’importante e gravoso compito che svolge il resto della categoria.

C’è bisogno che lo stesso organismo si ripulisca dal marcio che c’è al suo interno, che metta fine alle violenze e ai soprusi che sarebbe suo compito combattere.

E c’è bisogno che, per Giuseppe Uva,  e per tanti che a lui si aggiungono, venga fatta giustizia, quale che essa sia.

di Simone Cerulli

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