Beppe Alfano 24 anni fa

Morto per la verità, ma verità non c’è sulla sua morte.

Giuseppe Aldo Felice Alfano, detto Beppe, per gli amici Beppe, è un nome che a Barcellona Pozzo di Gotto vuol dire qualcosa, è uno di quegli uomini dei quali, quando non ci sono più, qualcuno finisce sempre per raccontare la storia.

Giornalista italiano ucciso per mano della mafia.
Amava la sua terra, la Sicilia, e amava Barcellona Pozzo di Gotto, la sua città natale in provincia di Messina.
E’ morto a quarantotto anni, l’8 gennaio 1993.

Sono passati ventiquattro anni e quattro processi che tuttavia non hanno fatto piena luce sulla sua morte.

Beppe Alfano doveva essere eliminato.
Le sue inchieste si erano spinte troppo in là.
Andava fermato.
Fatto fuori perché ritenuto colpevole di perseguire le cosche mafiose impedendone l’attività.
In realtà, quel tizio aveva messo il naso su una questione scomoda: gli intrecci maledetti tra mafia e politica.

Aveva quarantotto anni Giuseppe Alfano, di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), quando fu ammazzato.

Una vecchia Renault 9 color amaranto sta percorrendo la strada verso casa.
Una macchina che Beppe aveva dovuto prendere, perché la sua vettura era stata data alle fiamme.
Un atto intimidatorio per fargli capire che era andato oltre il limite consentito. L’ultimo avvertimento.
Probabilmente anche quella notte dell’8 gennaio del 1993 Beppe Alfano aveva compreso cosa stesse per accadere.
Al volante dell’auto Beppe era di ritorno dalla stazione, dove si era recato per prendere la moglie che tornava in treno dal lavoro.
Accompagna la moglie a casa.
Alfano si era accorto di essere stato seguito, si era accorto che qualcuno lo stava osservando.
Dice alla moglie di chiudersi dentro e di non aprire a nessuno per nessun motivo.
Mette di nuovo l’automobile in moto e si rimette in marcia.
Fa pochi metri. Svolta all’angolo. Prende un senso unico e arriva in via Marconi.
Accosta la sua macchina in via Marconi.
Poi il silenzio. Venti, trenta minuti di silenzio.
Una quiete che verrà spezzata dagli spari in lontananza.
Alfano abbassa il finestrino, vede il suo killer, ne ha incrociato gli occhi.
Non può cambiare le cose, ne è cosciente.
Istintivamente alza una mano come per proteggersi il volto; un colpo in bocca, uno alla tempia destra e uno al torace.
Freddato con tre colpi di pistola, ucciso dal piombo mafioso da un killer solitario.

Un assassino cui è stato dato l’ordine di uccidere, e senza alcuna pietà ha tolto la vita ad un uomo, a Beppe, giornalista scomodo, impossibile a persuadere a stare zitto, a compromettersi.

E’ la fredda notte dell’8 gennaio 1993, Beppe viene colpito da tre proiettili mentre è fermo alla guida della sua Renault 9 amaranto in via Marconi a Barcellona Pozzo di Gotto. Tre colpi calibro 22, un calibro piccolo, da professionisti.

Hanno ammazzato Beppe Alfano a pochi centinaia di metri dal portone di casa.

Sono le 22.30, in via Marconi c’è una macchina accostata al marciapiede, una Renault rossa.
C’è qualcosa di strano, perché quella macchina è ferma da un po’, come se fosse parcheggiata, ma ha il motore acceso che romba su di giri.
Dallo scappamento nel freddo di quella notte di inverno esce una nuvola di gas di scarico che l’ha quasi avvolta, come se avesse preso fuoco.
La gente che si trova in strada non capisce, c’è qualcosa di inquietante in quella macchina e così chiama il 113.
Gli agenti giunti sul posto si avvicinano alla vettura e vedono che dentro c’è un uomo che sembra essersi addormentato contro il sedile, mentre con il piede sta premendo l’accelleratore, come se davvero stesse dormendo e non se ne fosse accorto.
Ma quell’uomo non dorme, quell’uomo è morto.
Gli hanno sparato tre colpi di pistola, uccidendolo sul colpo.

Da quella notte sono passati 24 anni.

Chi è quell’uomo? Quel giornalista ucciso nella Renault rossa?
Cosa ha fatto di male?

Alfano era un insegnante di educazione tecnica, ma anche un cittadino impegnato politicamente, militante di destra: faceva parte del Movimento Sociale Italiano.

All’insegnamento affiancò l’attività di giornalista lavorando per il quotidiano catanese La Sicilia.
Scrisse delle vicende criminali del suo comune, dando, in diverse occasioni, fastidio a boss mafiosi ed altri potenti personaggi.

Raccontava gli interessi di mafia, le lotte tra gruppi criminali, scriveva di traffici di armi e di droga, appalti pubblici, massoneria, truffe.

Aveva cominciato un’indagine su un traffico internazionale di armi che passava nell’area di Messina; aveva forse contribuito anche alla cattura del boss catanese Nitto Santapaola nel ’93, un’altra sua “colpa” questa, forse la maggiore; aveva inoltre scritto di una massoneria deviata che speculava sul traffico di arance, avvalendosi delle sovvenzioni europee.

Insomma, Alfano con i suoi articoli di denuncia metteva a nudo gli intrecci tra criminalità organizzata e politica inquinata.

Alfano stesso intuì che avrebbe pagato a caro prezzo per la sua attività: “Ormai è soltanto questione di giorni. Non mi hanno ucciso a dicembre, lo faranno prima della festa di San Sebastiano” (il 20 gennaio), disse ai suoi familiari alla fine del 1992.

Questi dunque era Beppe Alfano:
Un professore di educazione tecnica con la passione del giornalismo.
Un giornalista senza tesserino, un giornalista locale.
Non era un giornalista iscritto all’Ordine, lo fu dopo la sua morte. E’ stato iscritto alla memoria, a far data dal giorno della sua morte, nell’albo dei giornalisti di Sicilia, a marzo del 1998.
Giornalista per passione, dunque, la tessera dell’Ordine non l’aveva mai chiesta.

Anche se non lo era ufficialmente Beppe Alfano faceva il giornalista, lo faceva meglio di molti altri, lo faceva da sempre.

Era anche un sindacalista molto attivo che agiva in difesa dei diritti degli insegnanti.

Era un giornalista e politico.

A ben pensarci i suoi molti mestieri sono in realtà sempre lo stesso, perché ci si prende cura di cose e persone.

Ma soprattutto era un uomo, un uomo con il suo carattere, le sue passioni.
Un carattere molto forte, molto determinato, ma estremamente sensibile.
Un uomo normale, un padre di famiglia, un marito.
Un uomo incorruttibile, giornalista d’inchiesta con la passione per la ricerca della verità.

Un giornalista che non si è spaventato di dire le cose come stanno.
Un giornalista che ha rischiato e perso la vita per tirare fuori la verità, per superare le aberrazioni di cui la mafia si è resa protagonista.
Un giornalista vero, disposto a non piegare la schiena.
Un giornalista di un certo tipo, di quelli che intuiscono, una via di mezzo tra investigatore e giornalista.
Un giornalista coraggioso le cui inchieste erano una minaccia per la mafia e per la politica collusa di Cosa Nostra.
Un giornalista tutto d’un pezzo.

Un uomo e la sua battaglia quotidiana che spiega l’importanza di spingersi sempre al limite per far spazio alla luce, alla verità.
Un uomo che ha pagato al prezzo carissimo della sua stessa vita contro la mafia, costi quel che costi.

Un destino già segnato, un percorso obbligato.

Dopo l’omicidio di Beppe Alfano seguì un lungo processo ancora oggi non concluso.
Il processo iniziò nel 1995: imputati erano Antonio Mostaccio e il boss Giuseppe Gullotti, presunti mandanti.
Insieme a loro Antonio Merlino, accusato di aver eseguito il delitto. Quest’ultimo fu condannato a ventuno anni e sei mesi di reclusione, mentre i primi due vennero assolti.
Al processo d’appello la condanna a Merlino venne confermata, ma a questa si aggiunse quella a Gullotti a trentanni per aver organizzato l’omicidio, lasciando ancora ignoti i veri mandanti.

Fu quindi riconosciuta la matrice mafiosa della morte del cronista, ma ci sono ancora molti punti oscuri che andrebbero chiariti.

Ancora oggi non c’è una verità ufficiale che sia chiara e completa.
Ancora oggi si aspetta di fare completa luce su quei fatti.
Ancora oggi c’è un’assuefazione che sconcerta.

Un altro nome, un altro misfatto, un altro delitto, un’altra vittima di mafia che conferma l’esistenza di un potere corrotto e ricattatorio, fatto di violenza e perversione, avvolto nel mistero.

Ventiquattro anni senza verità e senza giustizia.

di Maria De Laurentiis

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