La scelta di Trump su Gerusalemme

L’annunciato spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, e quindi il suo riconoscimento come capitale d’Israele, deciso dal presidente Trump è in contrasto con il diritto internazionale, rischia di scatenare una nuova intifada e di infiammare l’intera area mediorientale.
La comunità internazionale non riconosce le proclamazioni israeliane, condannate dall’ONU, di Gerusalemme capitale e la Corte Internazionale di Giustizia ritiene i territori situati oltre la “linea verde”, quelli conquistati dallo Stato di Israele nel corso della guerra del 1967 combattuta contro i paesi arabi, come “sotto occupazione”. E’ per queste ragioni che le rappresentanze diplomatiche straniere risiedono a Tel Aviv e che un consolidato orientamento internazionale rimanda lo status definitivo della città santa ad un accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi.
Oltre alle questioni di diritto internazionale Trump non ignorava certo le conseguenze politiche e diplomatiche del suo annuncio. Sapeva che per il presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas la decisione sarebbe stata inaccettabile. Conosceva la posizione saudita che considera il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme una provocazione. Era informato che il governo turco ritiene quel riconoscimento una linea rossa da non valicare e non sarà rimasto sorpreso del disaccordo espresso dai paesi europei.
E’ opinione dell’ex direttore della CIA, John Brennan, che “riconoscere Gerusalemme come capitale israeliana e spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv è una scelta sconsiderata e un grossolano errore di politica estera di proporzioni storiche”. Un’azione che “danneggerà gli interessi statunitensi nel Medio Oriente per gli anni a venire e renderà la regione più instabile”.
Quali, allora, le ragioni di una scelta che, inevitabilmente, avrebbe arroventato il clima nei paesi arabi e musulmani, interrotto ogni progresso verso un accordo di pace e scatenato proteste antiamericane nell’area?
Tutto è stato considerato e messo in gioco principalmente per motivi di politica interna: la volontà del presidente di adempiere, almeno, ad una promessa elettorale e, non secondariamente, distrarre l’attenzione del paese dal Russiagate.
Sfidando il buon senso l’amministrazione Trump afferma di essere comunque impegnata nel processo di pace e d’accordo con la soluzione dei due popoli e due stati. La decisione del presidente avrebbe semplicemente riconosciuto un dato di fatto: Gerusalemme è, storicamente, la capitale di Israele e la posizione fisica dell’ambasciata americana è irrilevante ai fini del raggiungimento di un accordo di pace.
La strumentalità della scelta statunitense è evidenziata dal fatto che non è ancora stata individuata alcuna area per la nuova ambasciata e che, a detta di funzionari statunitensi, ci vorranno anni per pianificare e costruire una struttura che soddisfi i criteri di sicurezza per i circa mille impiegati d’ambasciata oggi a Tel Aviv.
La scelta di Trump ha, almeno, il merito di sgombrare il campo da una finzione che dura da decenni: gli Stati Uniti, da ora in poi, non potranno più assumere il ruolo di mediatori tra lo stato di Israele e quel che resta dell’Autorità palestinese. Anche perché hanno “calato”, senza contropartite, la carta migliore che avevano in mano per spingere le parti ad accordarsi.

di Enrico Ceci

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