La donna elettrica

Per il femminile la salvaguardia della natura è la protezione, la prosecuzione della vita stessa che la madre generando protegge. Se il linguaggio comune dice madre natura, è perché esso stesso si dà in termini di madre lingua, ossia la lingua che apprendiamo fin dal primo vagito dal seno materno. Il mondo, il paesaggio, il proprio paese, e il termine stesso nazione, sono nascita, universale ventre materno. È il tema di questo film bifronte islandese La donna elettrica, di Benedikt Erlingosson. Bifronte e ossimorico già nel titolo: il naturale spirituale femminile e l’artificiale reale.

Nel paesaggio silenzioso e nudo dell’Islanda, la sua tundra di zolle d’erba bassa, muschi e licheni, dove non possono crescere alberi, a causa delle bassissime temperature polari, gli unici fusti che si elevano in verticale sono quelli scheletrici dei tralicci elettrici. La protagonista Halla, interpretata dall’attrice Halldóra Geirharðsdóttir, ha davvero le fattezze caratteriali e somatiche di tale muto e brullo panorama dell’anima. Di fronte all’avanzamento sempre più incombente della devastazione ambientale mondiale, Halla, garbata e benvoluta maestra di coro, eleva il suo personale inno alla natura, ossia agisce. Agisce individualmente, clandestinamente, indifferente ai rischi personali e alle campagne mediatiche foraggiate dalle industrie e dai politici nazionali. È convinta che la sua azione farà breccia sulla gente della sua Islanda. Sua, perché il proprio corpo, mente, attitudine, determinazione, è l’Islanda stessa quale madre d’ogni suo abitante, d’ogni loro parola e pensiero. Così lei affronta i mostri elettrici che protendono le loro alte braccia tra la rigida foschia islandese, come Don Chisciotte sfida lancia in resta i mulini a vento nelle aride campagne della Mancia iberica. Halla (pronuncia Hatla) ha una sorella gemella Ása, che rappresenta il lato cosmico-spirituale del femmineo materno. Il ruolo di questa gemella è interpretato dalla stessa attrice. Gli effetti elettronici permettono oggi di incollare, appiccicare elettronicamente, perfettamente dentro la stessa inquadratura due immagini girate separatamente. Qui – a parte alcune piccole e facili differenziazioni facciali – è proprio il corpo delle due donne a sembrare diverso: più duro, spigoloso, atletico, quasi maschile quello di Halla, più morbido, flessuoso quello di Ása. La trovata delle due gemelle ha però una grande efficacia d’intreccio narrativo, soprattutto nel finale.

Ciò che rende però più profondo il film è proprio il tema della madre. Sul mondo contemporaneo non incombono solo il surriscaldamento climatico, le inondazioni atmosferiche, le catastrofi ambientali. Questi mali si abbattono direttamente in molte zone del mondo nella forma di milioni di bambini colpiti da malattie e denutrizione, senza più casa, genitori, abbandonati a sé stessi. Ecco, Halla si trova di fronte a questo inaspettato frangente della sua lotta per la salvaguardia ambientale. È l’immagine allo specchio della coscienza di sé stessa, quale aspetto individualizzato della madre universale. Il precedente doppio, sotto le sembianze esteriori di Ása, si fa ora lacerante conflitto interiore. Di fronte alla foto di una bambina ucraina orfana, Halla – diversamente dall’eroe di Cervantes – avrà una via d’uscita dalla sua nobile idea fissa?

Ed è davvero questa la trovata, l’espediente narrativo più forte di tutto il film, arrivando a giustificare, dare un senso esistenziale autentico alle precedenti, spassose paradossalità comiche. L’immagine finale non è però affatto consolatoria, immergendoci fino alla cintola alle prime propaggine del diluvio universale prossimo venturo.

di Riccardo Tavani

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