Che siano paesi in guerra o in pace, i giornalisti vengono “silenziati” in tutto il mondo

Il termine di ogni anno, è l’occasione per fare un bilancio un po’ di tutto. Delle nostre vite, di obiettivi raggiunti o mancati, di persone perse o altre incontrate, di felicità o tristezza. E’ anche il momento di fare altri tipi di bilanci, quelli che hanno a che fare con la società in cui viviamo, il mondo e il suo cambiamento.

Anche sul fronte dei giornalisti, di cui abbiamo più volte parlato, si è appurato che sono diminuiti i reporter uccisi in zone di guerra mentre continuano ad aumentare quelli perseguitati in Paesi cosiddetti in pace. Una realtà nuova tutta da analizzare.

Quello che emerge dal Rapporto 2019 dell’organizzazione non governativa Reporter senza frontiere (Rsf) è unbilancio di luci ed ombre.

Sono infatti diminuiti, al primo dicembre di quest’anno, i giornalisti assassinati nel mondo: 49 rispetto agli 80 del 2018, il numero più basso negli ultimi 10 anni.

E il dato in ribasso è dovuto proprio al positivo calo delle morti sugli scenari di guerra, come per i conflitti in Yemen e Afghanistan mentre la Siria rimane in cima ai Paesi più letali per i reporter avendo registrato quest’anno 10 morti, un primato che condivide con il Messico, che pure è un Paese formalmente in pace.

Dunque per i giornalisti il confine tra Paesi in guerra e in pace sta scomparendo, se solo si pensa che l’America Latina si è avvicinata ai fronti di guerra in Medio Oriente. Il segretario generale di Rsf, Christophe Deloire, spiega che un numero sempre maggiore di giornalisti, viene deliberatamente assassinato per il lavoro svolto in zone democratiche, il che costituisce una vera sfida per le democrazie in cui questi giornalisti vivono e lavorano. I reporter uccisi nel 2019 sono tutti morti nel loro Paese, 46 uomini e 3 donne, di cui 36 erano professionisti, 10 freelance e 3 collaboratori.

Di pari passo aumenta il numero di detenzioni e rapimenti, per non parlare di coloro che vengono fatti prigionieri e tenuti in ostaggio.

Diventa quindi importante la preziosa opera di monitoraggio sulla libertà di stampa nel mondo e la denuncia puntuale delle violazioni, che danno la misura del mancato rispetto dei diritti umani universalmente riconosciuti.

Perché lì dove il giornalismo d’inchiesta viene annientato, si commette un reato contro tutto il mondo e il diritto di ognuno di noi di conoscere, sapere, essere costantemente informati su ciò che non si vuole rendere pubblico.

Pensare di arrivare a questo scopo con la morte dei reporter deve diventare  un enorme errore di valutazione.

E affinché ciò accada, è necessario che anche nel mondo del giornalismo sia radicata una solidarietà fra colleghi che si rispecchia nel modo di lavorare, soprattutto nel giornalismo collaborativo.

Raccogliere il testimone dei giornalisti uccisi a causa delle loro inchieste è l’unico modo per rendere onore alla loro memoria e per continuare ad indagare su ciò che è rimasto inconcluso; l’unica strada, forse lunga e tortuosa, per lasciar passare il messaggio che mai basterà inabissare una notizia non gradita con l’uccisione del giornalista che stava investigando, perché ci sarà sempre un suo collega o una squadra di colleghi che continueranno ad investigare in nome di quella verità che dovrà emergere e diventare pubblica.

Perché sempre, quando il singolo diventa massa, cambiano gli attori sul palcoscenico della vita.

Ed è su questi rinnovati bilanci, che vorremmo tutti lavorare, negli anni a venire.

 di Stefania Lastoria

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