E tornarono i ciclofattorini

Racconto

Il professore Marcello Intra periodicamente si recava e soggiornava a Roma per due o tre giorni. Traumatologo, era considerato uno dei massimi specialisti nella chirurgia del ginocchio. Dalle Marche, la sua regione, veniva ad operare in una clinica privata romana dalle otto di mattina fino a sera inoltrata. La struttura faceva parte di quella vasta rete pubblica e privata legata a enti ecclesiastici. Anche il piccolo albergo in cui si ritirava dopo le sue intense giornate operatorie apparteneva allo stesso ente. Collocato tra un intrico di vicoli nella zona centrale della Capitale, l’immobile prima ospitava cinque famiglie ad affitto minimo bloccato da anni. Poi, con l’esplosione del fenomeno dei bed&breakfast, l’ente pensò di trasformarlo in un piccolo, elegante scrigno ricettivo, per una fascia media, raffinata, discreta, per lo più di coppie straniere, per una settimana di romantico turismo tra le vestigia della Città Eterna. Si chiamava infatti Vestige Essence. Ogni camera, infatti, era arredata anche da una diversa essenza, profumo, aroma esotico, proveniente da tutti quei remoti domini del mondo in cui si era spinta la testimonianza della carità.

Ora, però, a causa della pandemia, le poche stanze erano tutte deserte, inodori, buie. Meno quella occupata dal professore Intra. Una volta entrati dal piccolo portone su un vicolo, si accedeva a una silenziosa chiostra interna, che dal piano terra si elevava per tre piani, circondata da altri bassi edifici intorno. Tetti, altane verdeggianti, cupole di storiche chiese graffiate dal volo e dal grido dei gabbiani era il panorama aggettato intorno all’alto terrazzino dell’alloggio riservato dall’ente ecclesiastico al chirurgo. Intra rientrava poco prima del coprifuoco delle 22, desideroso solo di rilassarsi e addormentarsi. Da un po’ di tempo una baluginante, ma persistente fitta alla spalla destra lo affliggeva, soprattutto sdraiandosi sul letto. Attraverso i finestrini dell’auto che lo accompagnava, vedeva le saracinesche abbassate di bar, trattorie e ristoranti: le strade vuote, deserte intorno a me, cantava tra sé Intra, sulla eco mnemonica  di Mina. Solo i ciclofattorini, ondeggianti sulle loro biciclette, erano gli unici uccelli notturni radenti l’asfalto scialbo d’illuminazione stradale. Gli venne voglia di ordinare una pizza. Anche per non ingoiare l’antidolorifico per la spalla a stomaco vuoto. Vide sulla sacca cubica plastificata di uno di quei rider il noto marchio di una ditta di consegne. Cercò sul telefonino e chiamò.

Rientrò nel nido del piccolo albergo vuoto e desolato, privo a quell’ora anche di personale. Si tolse giacca, camicia e cravatta, e restò in maglietta di cotone a maniche corte. Aveva le mani fredde, se le lavò lasciandole per un po’ sotto l’acqua calda. Arrivò la pizza. Vide dal terrazzino il fattorino attraversare la diagonale della chiostra interna, claudicando leggermente. Scomparve nel vano scale che conduceva al suo piano. Lo aspettò indossando una mascherina chirurgica sul pianerottolo antistante la camera. Lo vide imboccare l’ultima rampa di scale, tirandosi con fatica su per il corrimano.

“Che cosa hai che ti fa male a quella gamba?”, gli chiese, indicando l’arto sinistro.

“Non ci so, signore”, gli rispose. “Ci ho caduto da bici, ma mi ci era passato”.

“Entra un attimo”, gli disse “e mettiti seduto sul letto”.

“Non ci posso, signore, ci devo ancora pizze urgenti”.

“Non ci vuole niente, siediti e tirati su il pantalone della tuta. Come ti chiami?”.

“Ci chiamo Jamal”, rispose il ragazzo, togliendosi la sacca termica dalle spalle e sedendosi sul bordo del letto. Era un ragazzo nero, giovane, sui vent’anni, i tratti celati dietro una mascherina di stoffa dai colori striati verdi, rossi e gialli.

Intra gli palpò a lungo il ginocchio, anche nella parte posteriore. Lo fece reclinare sdraiato sul letto e gli sollevò, traendola a sé, prima la gamba sofferente, poi l’altra. Passò poi a palpare il quadricipite della coscia, e i muscoli del polpaccio. Il ragazzo aveva gli occhi chiusi, ma lo stesso trapelava da essi una specie di sorriso ancestrale. Intra gli prese la mano tra le sue e la carezzò. Era calda, bollente.

“Dovrebbe essere una tendinite rotulea, meglio lasci per un po’ la bicicletta. Ti prescrivo un’ecografia, la farai nella clinica dove ci sono io, non dovrai pagare niente. Vuoi qualcosa da bere, Jamal?”.

“Dottore, ci devo andare via,” rispose lui, ancora con gli occhi chiusi, come immersi nel sogno, la voce rallentata “se no ci addormento… mi ci buttano su marciapiede”.

Istintivamente Intra si portò quella mano bollente alla maglietta, sopra la spalla dolente. Rimase un attimo con il respiro mozzato. Il calore stava penetrando rapidamente, potentemente sotto la pelle, espandendosi tutto intorno. Prese anche l’altra mano, mettendola sull’altra spalla. Un’onda termica si diffondeva attorno al collo, risaliva sulla nuca, scendeva come un afflato benefico lungo tutta la schiena.

All’improvviso squillò il telefono di Jamal. Il ragazzo si alzò di scatto dal letto, tolse la pizza ordinata dal chirurgo dalla sacca, poggiandola su un tavolino, insieme a un altro scatolino. Da un borsello assicurato a mo’ di cintura alla vita tirò fuori lo scontrino della consegna. “Ci devo fretta, dottore, mi ci paga la pizza, per favore. Omaggio ditta per prima spesa un supplì”.

Intra prese il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni, estrasse una banconota da cinquanta euro e il suo biglietto da visita.

“Ecco, tieni il resto, e domani vai in clinica per l’ecografia”.

“Mi ci ho un altro lavoro domani mattina, dottore”.

Tornò a imbracarsi di nuovo la sacca sulle spalle e si precipitò giù per la rampa di scale. Intra aprì lo scatolino del supplì, dette un solo morso, cercò la sua pastiglia. La ingoiò con dell’acqua. Poi si tolse i pantaloni, buttandosi sul letto e spegnendo la luce.

di Riccardo Tavani

 

Print Friendly, PDF & Email