Debito pubblico e referendum

LambertoL’automobile è spesso una necessità più che uno sfizio. È, comunque, un oggetto caratteristico della nostra società: non possiamo biasimare chi la possiede e, ovviamente, la usa.

Purché  con buon senso.

Immaginiamo che il signor Rossi (ogni riferimento a persone reali è del tutto casuale) si sia comprato una Cayenne, anche se non potrebbe permettersela. Ad ogni fine mese il suo conto è in rosso. Allora riunisce la famiglia e dice: dobbiamo risparmiare, dobbiamo spendere di meno per il cibo e per i vestiti; niente più cinema, niente più giornali, dimezziamo la paghetta ai ragazzi.

La banca lo convoca e gli dice che non gli farà più credito, se non comincia a ridurre il suo debito. Tutti capiscono che quella macchina lo sta rovinando perché, nonostante i risparmi che impone alla famiglia, il debito cresce sempre più, e gli interessi innescano un meccanismo di moltiplicazione che mangia tutti i suoi risparmi. E tutti pensano: ma non può accontentarsi di un’utilitaria, come il signor Schmidt, o come il signor Brown? Non vede come le loro famiglie stanno meglio della sua?

In questa metafora, il signor Rossi rappresenta i nostri governi: spendono più di quanto non guadagnino e creano un debito che ogni anno cresce, nonostante i tagli imposti ai cittadini.

Soprattutto, tagliano su tutte le spese, ma non su quella che ha generato il debito, proprio come il signor Rossi.

Ma qual’è la Cayenne che ci sta mandando alla rovina?

Potrà sembrare strano, ma tutti i risparmi operati ogni anno dalle varie “finanziarie” finiscono con il colpire voci di spesa che non sono mai state superiori a quelle dei signori Schmidt e Brown (per esempio, le pensioni, la sanità, la ricerca, la difesa, la cultura, la sicurezza, su cui spendiamo come gli altri, se non di meno).

Ma non toccano, se non marginalmente – tanto per per fare un po’ di scena – l’unica voce di spesa che risulta enormemente più alta rispetto agli altri Paesi europei: il costo della macchina dello stato (comprese tutte le sue diramazioni periferiche) che, nelle asettiche tabelle pubblicate dai ministeri e dagli economisti, viene  chiamata “amministrazione generale”.

Lì, la percentuale di PIL impegnata è sempre stata superiore rispetto agli altri Paesi europei: anche due, tre, quattro volte più alta.

Se qualcuno non ci crede (mi rendo conto che è dura da mandar giù, abituati come siamo alla litania delle spese da tagliare: pensioni, sanità, ricerca, cultura…) può controllare tranquillamente. L’internet consente di vedere tutti i dati ufficiali, i grafici a confronto della spesa pubblica nei diversi Paesi: non c’è proprio pericolo di sbagliare. Da lì, si può finalmente capire perché in Italia il PIL cresce dello “zero virgola” mentre altrove cresce a cifre intere; perché la pressione fiscale è quella che è, a prescindere dalla sua equità o iniquità.

È ovvio che, quando si va a pretendere una maggiore flessibilità in sede europea, ai governanti dei paesi più virtuosi girino un po’ le palle. Chiedono, in cambio, le riforme necessarie ad interrompere lo sperpero dei soldi pubblici in una macchina dello stato che genera debito anziché benessere. Se loro riescono a funzionare bene spendendo la metà, perché noi dovremmo ostinarci nel nostro errore?

In effetti, questa domanda sembra senza risposta, almeno a prima vista. Anche se i nostri governanti fossero completamente idioti (ma, in tutta onestà, credo che lo siano solo in parte) potrebbero semplicemente copiare da quelli più bravi, come si faceva a scuola. E quindi imitare l’organizzazione dell’”amministrazione generale” francese, inglese o tedesca: una qualunque di queste ci salverebbe. Diventeremmo di colpo uno dei Paesi più ricchi e felici del mondo. Tanto per fare un esempio, la nostra sanità pubblica è stata riconosciuta per anni dall’OMS come la seconda al mondo: eppure spendevamo in sanità meno degli altri. A noi, i fondo, basta meno per far meglio; ma con la pala al piede di quelle spese “generali” proprio non possiamo correre, dobbiamo accontentarci di arrancare.

Ma quale mai vantaggio può avere il signor Rossi (cioè il nostro governo) a persistere nella sua apparente follia?

Temo proprio che la risposta sia piuttosto sconfortante: ridurre il costo della macchina dello stato taglierebbe l’erba sotto i piedi della corruzione, del sottogoverno, dei privilegi di casta; ridurrebbe la possibilità di elargire favori agli amici; assottiglierebbe la corte di parassiti che vivono ai margini delle pubbliche amministrazioni, centrali e locali. Troppi signori Rossi dovrebbero accontentarsi di una Panda e rinunciare al SUV di lusso.

Ecco perché i tentativi di “spending review” sono stati tutti rapidamente abbandonati.

Anzi, meglio aumentare la spesa pubblica: che sia il ponte sullo stretto, il raddoppio dell’aeroporto di Fiumicino, il MOSE, la TAV, le olimpiadi, purché si spenda, e si spenda in grande. Altri programmi, magari più utili – come curare il dissesto idrogeologico e la sicurezza antisismica, o fermare la fuga dei cervelli – non hanno la stessa ricaduta economica sulla casta, che è il vero interesse del signor Rossi.

A ben pensarci, questa lucida e perversa follia del signor Rossi non ha soltanto effetti economici, ma anche più sottili effetti a livello politico-istituzionale. Perché non si potrebbe agire così sconsideratamente se i cittadini potessero davvero orientare le scelte del governo e controllarne l’operato. Di qui la necessità di blindare la casta. E cosa c’è di meglio di una legge elettorale come l’italicum, che tuteli l’attività del governo dal controllo degli elettori?

Beh, una cosa ci sarebbe: una riforma costituzionale che impedisca l’elezione dei senatori.

di Lamberto Rinaldi