Ondina, regina dello stadio
Alla fine ci arrivo, ad Olimpia. Ci arrivo alla fine di 5 anni di greco, di vocabolari, grammatica e traduzioni. Ci arrivo per vedere cosa resta del giorno, della mia adolescenza, dell’adolescenza della nostra civiltà. A Olimpia restano i racconti, le storie, i setacci nel fango, le fatiche degli archeologi, le pietre tagliate, i pezzi di colonne scanalate, i basamenti imponenti, i muri bassi. Restano i ricordi, seminati in una piana bollente. È questa Olimpia, è qui che sono nati gli Immortali: uno per ogni estate, un’estate ogni quattro. Olimpia ha vissuto sempre e solo per i giochi. Aspettando il solstizio d’estate, e poi contando tre pleniluni, tra la fine di luglio e l’inizio d’agosto, ha giocato quando il caldo la faceva da padrone, senz’acqua, senza una città, senza alberghi, senza tetti, sotto le tende. Non c’erano alloggi per gli spettatori. Olimpia sacra e isolata (Atene è a cinque ore di automobile), tra distese di olivi e nugoli di mosche. I greci sacrificavano agli dei per riuscire a scampare agli insetti, alla carenza dell’acqua, e dell’ombra. Si moriva anche di dissenteria, a Olimpia. Talete, il filosofo, è morto qui. Morto per il troppo caldo. È difficile pensare che un luogo così fosse riservato agli dei e agli eroi. Eppure.
Lo stadio della corsa è ancora quello, con l’erba secca d’agosto e i blocchi di marmo. E mi vien voglia di provare a correre. Le donne da Olimpia erano escluse e io, perché donna, non avrei mai potuto correre qui. Ma dopo duemila e settecento anni il divieto è scaduto, e lo stadio è vuoto, e sono deserti gli antichi blocchi di partenza, e ho le gambe sufficientemente lunghe e il fiato bastante per duecento metri. Ci provo, a correre, a piedi nudi sull’erba.
“Vuoi tu cantare i Giochi, o anima mia? Non cercare, quando la luce del giorno brilla nel cielo deserto, un astro più ardente del sole e non sperare di celebrare una gara più gloriosa di Olimpia”.
Pindaro
La prima donna italiana a vincere un’olimpiade fu Ondina Valla. Vinse la medaglia d’oro negli 80 metri a ostacoli, a Berlino, nel 1936. Le olimpiadi forse più famose, quelle che nella mente di Goebbels avrebbero dovuto dare lustro alla nuova Germania nazista e razzista, ma che sono passate alla storia -per contrappasso- per le 4 medaglie dell’atleta afroamericano Jesse Owens.
Ondina Valla, ragazza bolognese, si chiamava in realtà Trebisonda: suo padre aveva subito il fascino della omonima città turca sul Mar Nero. Atleta molto dotata, Ondina Valla si era qualificata già nel 1932 per i giochi di Los Angeles. Unica donna della squadra olimpica italiana. Avrebbe dovuto viaggiare da sola con gli uomini, avrebbe dovuto correre con le gambe nude…restò a casa.
C’è sempre stato un pregiudizio strisciante nei confronti dello sport femminile.
Ondina partì 4 anni dopo, per Berlino. Nelle gambe aveva ancora i tempi giusti per una gara olimpica. Le cineprese tedesche la ripresero da ogni angolazione, sulla schiena aveva il numero 343. Vinse con gli occhi chiusi sul filo di lana.
Con le medaglie d’oro i tedeschi consegnarono agli atleti una piccola quercia, la pianta sacra a Odino, insistendo su una supremazia nordica anche della tradizione spirituale. Ondina piantó la sua in un fazzoletto di terra dentro il recinto dello stadio di Bologna. Le querce di solito sopravvivono agli uomini, e alle donne.
Chissà se la pianta di Ondina è ancora là, a raccontare che lo sport è universale, che gli stadi hanno bisogno di incoronare le proprie regine, insieme ai loro re.
di Daniela Baroccini