IL LOTTO 285 (capitolo primo)

“Chi parla di vincere? Resistere è tutto.” R. M. Rilke

Era un sogno. Avevo tra le mani un biglietto, o meglio un post-it di quelli con il nome di un prodotto medicinale di una casa farmaceutica che si trovano di solito su una scrivania di un ufficio, sul cui retro era scritto a matita quello che a prima vista sembrava un indirizzo, anche se incompleto, riguardante una località a me sconosciuta, un riferimento più che altro a un quartiere, o a una parte di esso, dove avrei potuto trovare una casa. C’era davanti a me un ponte, o meglio un cavalcavia che sormontava una serie di linee ferroviarie che si intrecciavano e che, per quanto potevo vedere nel sogno, finivano in un grosso agglomerato di costruzioni basse, disposte simmetricamente rispetto alle rotaie. Mi inoltrai lungo il ponte, convinto che dall’altra parte avrei trovato quel gruppo di case o palazzine a due piani, facenti parte di un complesso che si estendeva a semicerchio in tre file concentriche, quasi una sorta di fortino ma aperto ai lati, segnale questo che me lo faceva sembrare accessibile e, vista la perfetta disposizione delle palazzine, mi avrebbe fatto trovare facilmente il lotto 285.

   La palazzina che trovai era semidiroccata, con un lato squarciato a causa delle recenti incursioni aeree alleate sulla città, ed in particolare su quella parte di essa vicina al nodo ferroviario ed al deposito carburanti. Gli aerei ormai erano lontani, così mi avventurai attraverso l’ingresso, che constatai era costituito da una porta divelta dai montanti e adagiata di lato, tanto che dovetti montarle sopra per entrare. Le prime stanze che potei osservare erano rimaste intatte e la scala che portava al piano superiore, benché sconnessa, ancora consentiva l’accesso ad altre stanze, i cui muri esterni erano quasi completamente abbattuti, se non per un precario davanzale che ancora resisteva al crollo e che permetteva una, se pur lieve, difesa dal precipizio che mi si presentava guardando dabbasso. Il vento di marzo fischiava tra le pareti sconnesse, così provai ad adagiarmi in un angolo il più riposto possibile e lì mi addormentai. Al mio risveglio notai un andirivieni nel piano inferiore che intuii essere di persone che si aggiravano circospette, presumibilmente in cerca di un rifugio. Avevano con loro una donna che aveva le mani legate da un laccio dietro la schiena, una probabile prigioniera, che si guardava intorno con fare circospetto e incespicava a ogni tratto, strattonata com’era, da quelli che sembravano essere i suoi aguzzini. Ne intravidi due, che portavano una divisa militare di color verde marcio, caratteristica questa che mi fece pensare ad appartenenti a qualche corpo dei servizi d’ordine affiliati alla polizia tedesca che avevo già notato marciare lungo le strade del centro della città.

Le poche parole che potei udire da parte dei militari mi sembrarono in italiano, anche se un italiano secco e frammentato tipico delle popolazioni del nord-est. Nel sogno però le loro figure si stagliavano opache e non riuscivo a distinguerne la fisionomia. Mi accostai comunque ad un lato della stanza e aspettai che il gruppo prendesse possesso della casa, sperando in cuor mio di non venire scoperto. Non ero avvezzo ad atti di eroismo gratuito, così mi guardai bene dall’ espormi, anche se disponevo di una pistola, che stringevo in mano, e di un coltello, che nascondevo alla caviglia sotto i pantaloni. Mi chiesi chi mi avesse mandato in quel posto e per quale motivo avessi poi incontrato quel drappello di soldati che scortavano la prigioniera. Mi sovvenne di una persona che avevo incontrato casualmente nella clandestinità e che si rivelò essere poi una spia, o meglio un delatore, che mi aveva consegnato il biglietto con quel semplice indirizzo, o parte di esso, forse per non rendermi partecipe del tutto della sua spiata, o forse perché egli stesso non ne sapeva di più. Comunque quel luogo mi sembrava più un rifugio che qualcosa che prevedesse un’imboscata, un tranello ai danni dei gruppi di guerriglia che agivano in città, anche se la presenza dei due militari tedeschi lo avrebbe fatto supporre. Mi convinsi quindi di non uscire allo scoperto, almeno per il momento, e ad aspettare le mosse dei sopraggiunti. La donna che era con loro adesso era appoggiata di faccia a una parete, sembrava tranquilla, come se intuisse che ben presto sarebbe stata liberata. Cosa che avvenne qualche minuto dopo da parte di uno dei militari che, sciogliendole i nodi del cappio che le teneva stretti i posi, la fece girare verso di lui e le accarezzò leggermente la faccia, come per scusarsi per quella momentanea detenzione. La donna, che ora vedevo meglio, portava un giaccone militare color kaki, dei pantaloni a sbuffo stretti alle caviglie dello stesso colore e degli stivali dalla grossa suola adatti a camminare sulla neve o su strade accidentate di montagna. Ora si massaggiava i polsi ancora doloranti per la stretta del cappio e guardava in faccia il militare con aria sicura, da persona avvezza a non subire soprusi e a comandare. Si scostò da lui con passo quasi di marcia e si protese fuori dall’ingresso della palazzina, come per controllare ed essere sicura che altre persone non si trovassero nei paraggi.

Si rivolse quindi al militare che l’aveva liberata (mentre l’altro si era appartato, posando il fucile e accendendo una sigaretta) e, con aria decisa intimò ad entrambi di disfarsi di quelle divise e di riporle nei rispettivi zainetti che portavano alla schiena. Costoro ubbidirono prontamente, rivelando una vestizione simile a quella della donna, con giubbotto e pantaloni kaki, che ben presto riconobbi tipica dei guerriglieri o dei contrabbandieri. Erano certo un gruppo, pensai, che cercava di occultarsi, attraverso quell’evidente strattagemma del rapimento e del travestimento, cercando di sfuggire ad un’identificazione certa da parte delle forze occupanti che in quel momento rastrellavano in forze la zona. Mi rivelai quindi ad essi, certo di essere dalla loro stessa parte, o perlomeno vicini nell’affrontare insieme il nemico. Con un gesto di saluto con la mano alzata uscii quindi dal mio nascondiglio nel piano superiore, scesi in fretta le scale e mi avvicinai ad essi, che nel frattempo si frammisero come un sol uomo fra me e l’uscita principale, quasi volessero impedirmi di scappare o di chiedere aiuto. In quel momento pensai che si stessero chiedendo chi fossi, quale fosse il motivo della mia presenza in quel luogo desolato e, soprattutto, se avessi armi nascoste che potessero nuocere alla loro incolumità. Alzai quindi le mani in segno di resa e permisi loro di perquisirmi, anche se sapevo che non avrebbero trovato altro che un biglietto (la pistola e il coltello li avevo nel frattempo occultati in un angolo) che indicava, almeno in parte, la causa del mio arrivo lì, in quella palazzina diroccata. Dichiarai allora che quel numero e quella indicazione l’avevo avuti in sogno e che neanche per sogno (mi resi subito conto del bisticcio di parole che andavo proferendo) sapevo perché mi trovassi in quel luogo, benché l’avessi cercato nella realtà e successivamente trovato.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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