Capaci: Angelo Corbo e il mestiere di sopravvivere a “paradossi, omissioni e altre dimenticanze”

Uno sguardo. Il ricordo di uno sguardo. Quello con cui Giovanni Falcone, nell’auto appena impattata contro il muro di asfalto sventrato a Capaci, si gira verso il finestrino e “chiede aiuto” agli uomini della sua scorta appena usciti, stravolti, dall’ultima macchina.

Quella che lo seguiva.

Questo e molto, molto altro resta indelebile nella memoria di chi a tanto orrore è sopravvissuto come Angelo Corbo, agente di “quella” scorta.

Sopravvissuto nell’indifferenza generale, e soprattutto, nel silenzio generale di chi a lui come agli altri tre sopravvissuti a Capaci, mai ha chiesto conto più di tanto di come fosse andato quel maledetto giorno e di cosa accadde.

Anzi, probabilmente pochi addirittura sanno che a Capaci qualcuno è sopravvissuto …

… esattamente come per Via D’Amelio!

Fantasmi. Fantasmi che, però, davvero sanno come sono andate le cose.

Fantasmi che hanno visto, che possono smentire se ascoltati, che possono ancora raccontare.

Fantasmi che qualcuno ha cercato davvero di far diventare tali, dimenticandoli, ignorandoli.

È per questo che, a distanza di venticinque anni, Angelo Corbo ha scritto un piccolo ma bellissimo e vero libro.

Pagine in cui racconta la “sua” storia, quello che vide e ricorda di “quel giorno”.

Nasce cosi: “Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze” di cui mi trovo a leggere in un pomeriggio di questa appena iniziata primavera e in una sala piena, commossa e silenziosa, alcune delle pagine più toccanti durante una delle tante presentazioni a oggi in giro per l’Italia.

Pagine che ricordano, per esempio,la verita’ su una ragazza di vent’anni o poco piu’, Emanuela Loi, che aveva fatto il corso con lui e della quale aveva conosciuto sogni e confidenze.

Una ragazza che morira’ neanche due mesi dopo in Via D’Amelio.

Cosi come le frasi del racconto-intervista fatto dalla moglie di Corbo, Enza, della ricerca spasmodica del marito e di sue notizie quel 23 maggio.

Della corsa all’ospedale e dell’averlo trovato nella saletta attigua a quella dove erano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo morti.

Pagine in cui racconta di averlo visto pietrificato, assente.

Lì solo con il suo corpo, con in lui il vuoto… lo sguardo di una persona che “davanti a sè non aveva niente”.

Ecco … sinceramente dal momento in cui ho passato una intera giornata con Angelo Corbo scrivere di questa esperienza è stato, e è difficile.

Difficile rendere la bellezza del fatto che quest’uomo abbia deciso di impegnare oggi la sua vita a raccontare ai ragazzi nelle scuole cosa abbia voluto dire “avere l’onore di essere scorta di Giovanni Falcone e di esserlo nella consapevolezza di quanto Falcone fosse “non amato”.

Difficile rendere l’emozione dell’ascoltare “chi c’era” quel 23 maggio.

Il racconto dell’immagine di quel pullman pieno di ragazzi in gita scolastica visto passare con la coda dell’occhio e sfilato via da quell’asfalto solo pochi minuti prima che scoppiasse tutto.

Difficile descrivere a parole ascoltare dello scendere dalla macchina dove Corbo si trovava con i suoi colleghi, la terza dietro a Falcone, insieme alla paura che qualcuno arrivasse a finire il compito iniziato uccidendoli mentre correvano verso quella del giudice per soccorrerlo.

Difficile ascoltare i suoi dubbi, così come le sue certezze.

Il racconto del rullino di foto sparite, dei soccorsi dove può essersi inserito chiunque, di quella borsa sempre accanto al giudice mai ritrovata…

Accade, allora, che nel vissuto di questi giorni e di questi racconti arrivino come schizzi di escrementi, su questo come su altri asfalti insanguinati, le parole della tal conclamata terrorista e omicida che neanche voglio sporcarmi a nominare.

Quel concetto di “mestiere di vittima” che tanto la disturba, usato nel quarantennale di Via Fani.

Ecco, penso a questo e guardo, invece, a Angelo Corbo.

Una vita da sopravvissuto al dolore della perdita dei suoi colleghi, del giudice che voleva proteggere, una vita a chiedersi perchè non anche lui.

“Non si è fortunati a rimanere vivi … tu sei lì … e non riesci a capire il motivo per cui tu sei rimasto vivo.” Insomma vite, tante, di cui hai contezza della difficoltà a proseguire ogni volta che incontri chi si sia impegnato o sia stato toccato dall’impegno drammatico per qualcosa di davvero alto.

Certezza rinnovata che il cosiddetto “mestiere di vittima”, concetto uscito pochi giorni fa dalle ignobili parole di quella cosiddetta signora, si svolga sì ma solo dentro una bara per chi non ce l’ha fatta o nel dolore infinito di giorni e anni che passano senza risposte.

Non certo nella vergogna di chi inqualificabilmente mai ha avvertito nè pentimento nè rispetto.

Angelo Corbo l’essere vittima del suo sopravvivere a tanto dolore e morte l’ha trovato e sublimato nella maniera più bella importante.

Trovato dopo venticinque anni, e non certo facilmente, scrivendo quanto ha vissuto … e l’impegno con l’essere fra i giovani a farne memoria nelle scuole di tutta Italia.

Nel raccontare sperando ancora che qualcuno “ascolti” o abbia, finalmente, la voglia e l’interesse a “chiedere”, compreso questo strano, ingrato, colpevolmente sordo stato.

Raccontarsi,raccontare e ricordare.

Angelo Corbo era un ragazzo quel ventitre maggio,ora è un uomo.

Grande, forte, con la capacità di commuoversi ancora e il coraggio di parlare e raccontare

“Gli uomini passano, ma le idee restano e camminano sulle gambe di altri uomini”, disse Giovanni Falcone in una delle sue ultime interviste.

Angelo da quella terza macchina a Capaci è uscito.

Ha guardato negli occhi il giudice, ha visto quello sguardo indimenticabile che chiedeva aiuto, e da quell’asfalto, esattamente da quell’asfalto sventrato, per lui e per tutti noi, ha iniziato a camminare.

di Milene Mucci

Fondazione “Antonino Caponnetto”

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