L’Europa che si sgretola

Cerulli

Medito di scrivere qualcosa a riguardo dal giorno dell’incidente del pullman di studenti Erasmus, in Catalogna, di qualche mese fa. Da allora, qualche idea si è dissolta, qualcuna è cambiata, qualcun’altra si è rinforzata. Avevo appena vinto il bando Erasmus, all’epoca, ed ero arrabbiato per l’aver scoperto a quale miseria ammontasse la borsa di studio, e amareggiato per quello che era successo a quelle ragazze e a quei ragazzi. In qualche modo le due cose erano collegate: si spinge tanto, dentro le Università e sui media, sull’importanza di partecipare a questa opportunità, ma poi si stanziano due soldi, a malapena sufficienti a pagarsi un posto letto. Così uno si arrangia, si affida a quell’unica associazione che assiste gli studenti e che offre servizi economici, ma che non è controllata, è autogestita, e che in qualche modo deve pur lucrare. Così si organizzano feste e viaggi, ma si risparmia all’osso sulla qualità.

In sostanza l’Unione se ne lava le mani, lasciando quei pochi che poi partono abbandonati a loro stessi, quando l’Erasmus è forse uno degli strumenti identitari più potenti che possiede.

Ed ecco il punto: è proprio il senso di identità che manca a questa Unione europea, la base per il consenso a una qualsiasi forma di organizzazione statale. In parte è anche una questione di retorica, di vendere se stessi. Di sovrastare la voce di quell’altra retorica, più antica e quindi più radicata, dei singoli nazionalismi, che di questi tempi stanno mostrando più del solito il loro aspetto xenofobo e populista. E sul sentimento di inclusione, così come sul fronte della comunicazione, ha veramente fallito l’Europa. Ancor prima che sulle politiche economiche, governate dalle logiche finanziarie, sulla mancanza di un organo elettivo diretto che abbia un peso reale, sul caso Grecia e sulla Troika, l’Unione ha fallito (senza nemmeno aver tentato) nella costruzione di una narrazione inclusiva, identitaria, sovranazionale. Così come ha fallito sul fronte comunicativo, permettendo ai singoli governi di utilizzare i fondi che da essa ricevevano quasi tacendo sulla loro provenienza, e alimentando l’immagine dell’Europa succhiasoldi. Un minimo di propaganda, ecco.

L’ho scritto già allo sfinimento, ma se il Paese che prende più soldi come la Polonia, che sta cambiando volto grazie (tra le altre cose) a questi, è attraversato diffusamente dall’idea che l’UE li stia invece portando sul lastrico, qualcosa non va.

Ma l’esempio lampante è il Regno Unito: all’indomani del voto, lo sconcerto generale ha dimostrato che in pochi si aspettavano tale risultato. Ma credo che, seppure questa Europa non piace per nulla neanche a me, se ha aumentato le differenze invece di colmarle, se ha dato voce sempre e solo al più forte, un vero sentimento identitario avrebbe scongiurato un evento del genere. Se non si è d’accordo con le politiche del proprio governo, non mi risulta sia usanza quella di cambiare cittadinanza, così come non mi risulta che negli Stati Uniti un qualche Stato richieda l’indipendenza quando non è soddisfatto: eppure è una realtà più recente di altre, che ha affrontato una guerra di secessione, ma dove il progetto identitario è stato forse il più efficace.

Ed ecco che invece di provare a cambiare dall’interno, si abbandona una realtà che non si sente come propria, oltre che come utile.

E a me e agli altri come me che con questa idea di condivisione, di vicinanza resa possibile dall’abbattimento delle barriere burocratiche, dei mille controlli, dei mille documenti e delle tasse che hanno permesso voli economici, della libertà di studiare, lavorare, vivere e amare ovunque come cittadini di uno stesso Paese, ci siamo nati, il futuro prossimo spaventa, e il presente disgusta. E non mi preoccupa il Regno Unito, che è sempre stato ai margini, e della cui uscita forse non si sentiranno grandi effetti. Mi preoccupa il precedente, l’escalation che ne potrebbe seguire, l’espansione del fenomeno.

Sessant’anni di pace hanno cancellato la memoria di quella generazione che dai padri ha avuto tutto ma che, oramai abituata a prendere, non ha lasciato nulla a noi figli, se non questa idea vaga di Europa che noi, generazione adatta a cambiarla, siamo condannati a veder sgretolarsi sotto i nostri occhi.

Un ritorno a confini sempre più piccoli, agli ostacoli economici della mobilità, ai fossati delle distanze, alle micro-identità, alle spinte secessioniste, al particolarismo. All’odio che in Europa, fino a mezzo secolo fa, ha serpeggiato, tra uno Stato e l’altro, per millenni.

E temo che questo rischio, i tanti che plaudono al ritorno all’autarchia, non l’abbiano colto. Così come temo che a Bruxelles non abbiano imparato la lezione che non si tira avanti a muso duro, e che la Brexit è stata una richiesta di cambio di marcia.

Questa Unione europea andava rifondata dall’interno, allargata, potenziata. Non disintegrata.

di Simone Cerulli

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