Lo strano caso del rapporto Trump-Russia

Nelle ultime settimane la questione del legame effettivo che lega il presidente Trump e il governo russo ha monopolizzato l’attenzione mediatica internazionale, e soprattutto quella della stampa americana.
Discernere quale sarà la sostanza, e ancora di più, quali saranno le conseguenze della relazione tra le due ex-superpotenze della guerra fredda, non è un obiettivo facile da quando alla Casa Bianca abita il tycoon di New York. Lo è ancora di meno dopo l’improvviso attacco al regime siriano di Assad.
La questione non si basa solo su suggestioni giornalistiche, anche se di certo non mancano allusioni complottistiche. Sulla vicenda ci sono già alcuni elementi concreti. Innanzitutto, un indagine condotta dall’FBI sulle presunte ingerenze russe sulla scorsa campagna elettorale. Agenzie di servizi segreti militari russi avrebbero influenzato le elezioni hackerando l’archivio mail del Partito Democratico e del presidente della campagna elettorale di Clinton, John Podesta, e consegnando il contenuto a Wikileaks. Lo stesso Julian Assange è stato accusato più volte di avere un rapporto ambiguo con il governo russo.
Ma prima ancora dell’FBI, la Cia già in estate aveva le prove di sforzi russi nel cercare di sostenere la campagna di Trump. L’allora direttore dell’agenzia, John O. Brennan, avrebbe tenuto segretamente diverse riunioni sulla questione.
La vicenda ha già fatto saltare qualche testa. Il neo consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn, si è dovuto dimettere da ruolo. L’ex militare aveva nascosto al vicepresidente, Mike Pence, di avere discusso con l’ambasciatore russo di un alleggerimento delle sanzioni inflitte alla Russia. Tali incontri erano avvenuti prima del suo giuramento.
Stessa sorte era toccata in agosto a Paul Manafort, presidente della campagna presidenziale di Trump. Il personaggio era già noto per la sua opaca attività di lobbista. A costringerlo a dimettersi sono state alcune indiscrezioni del New York Times, secondo le quali avrebbe ricevuto illegalmente 12,7 milioni di dollari dal partito politico filo-russo dell’ex presidente dell’Ucraina Viktor Yanukovych.
Alcuni incontri (non rivelati) durante la campagna presidenziale con l’ambasciatore russo hanno fatto tremare anche il segretario alla giustizia, Jeff Sessions.
Insomma, lasciando da parte gli interessi economici in Russia del Trump imprenditore e senza neanche citare le contraddittorie dichiarazioni sui suoi legami con Putin, alcuni sospetti appaiono legittimi.
Ciò che, invece, non convince è l’atteggiamento del Partito Democratico e di altri oppositori di Trump. Forse, sull’argomento si è posta un eccessiva enfasi. Certamente il ruolo dei social network nell’influenzare le persone è rilevante, ma non sono stati i russi a convincere milioni di persone a votare un personaggio come Trump. Forse i democratici farebbero bene a guardare prima se stessi.
Ma a guardare le proprie colpe e le proprie responsabilità non dovrebbero essere solo i democratici. In fondo, le presunte ingerenze russe sbiadiscono rapidamente se confrontate con quello che gli Stati Uniti intendono per “ingerenze”. Nella definizione rientra anche bombardare a piacimento territori e cittadini stranieri. Rimanendo nella cronaca recente, basta guardare gli attacchi di Trump in Siria, Iraq, Afghanistan. E poi le minacce americane alla Corea del Nord.
In fondo non mancano gli argomenti per criticare Trump, e tutto sommato una distensione delle relazioni diplomatiche tra Russia e America sarebbe un fatto assolutamente auspicabile.

di Pierfrancesco Zinilli

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