Schiavitù 2.0: dai campi di cotone a quelli di pomodori

“E’ estate e la vita è più facile, i pesci saltano nell’acqua e il cotone è alto” scriveva George Gershwin negli anni ’30 in una commovente e ironica ninna nanna cantata all’interno della sua opera “Porgy and Bess” da una schiava nera in un’immaginaria località del South Carolina, e ispirata proprio alla vita degli afroamericani; proprio in quelle piantagioni di cotone, caffè e tabacco migliaia di uomini deportati dall’Africa sono stati per decenni ridotti in schiavitù. Sono passati più di 150 anni dall’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America, sono state proclamate carte per i diritti fondamentali dell’uomo, costituzioni che stabiliscono l’eguaglianza e la parità dei diritti, e la schiavitù è un qualcosa che appartiene oramai alla storia. Eppure non occorre andare molto lontano per immergersi in un pezzo di quella storia. Non si tratta di piantagioni di cotone, e non parliamo di afroamericani. Siamo nel sud Italia (ma il fenomeno colpisce molte regioni del nostro paese da nord a sud), e le coltivazioni sono perlopiù di pomodori, “l’oro rosso”, ma anche meloni, uve e altri prodotti nostrani; in queste terre operano organizzazioni criminali che reclutano braccianti nelle fasce più disagiate, immigrati con o senza permesso di soggiorno, ma anche (seppur in minoranza) cittadini italiani, e li costringono al lavoro nei campi per 12 ore al giorno in condizioni disumane e sotto il sole cocente per cifre irrisorie (circa 2 euro l’ora). Sono circa quattrocentomila le persone che ogni anno cadono nella rete di questi sfruttatori, e per tutti valgono più o meno le stesse regole: nessun (ovviamente) contratto (il che si traduce in nessuna tutela), l’imposizione di un alloggio (casolari abbandonati, baraccopoli, veri e propri ghetti spesso privi di acqua ed elettricità in cui vengono stipate decine di persone, mortificate nella carne e nella dignità), condizioni di lavoro al limite della sopportazione umana per un salario tra i 20 e i 30 euro al giorno. E poi violenze, ricatti, estorsioni: perché lo sfruttamento avviene fino in fondo. Guanti da lavoro, medicinali, pane e acqua e tutto quel minimo indispensabile per sopravvivere venduto a peso d’oro. Finché qualcuno non ce la fa. E’ il caso di Mohamed, stroncato da un infarto a soli 47 anni nei campi del Salento, o di Paola Clemente, 49, uccisa dalla fatica anch’essa in un campo pugliese. Perché lo sfruttamento non fa distinzione di genere, e la condizione delle donne schiave è ancora peggiore. Sfruttate nei campi, subiscono dai loro aguzzini ogni genere di violenza sessuale, spesso costrette anche a prostituirsi. E ogni estate il copione si ripete. Dietro tutto ciò una complessa struttura organizzata, composta dal “caporale” (a volte braccianti “promossi sul campo”), che ha il compito di reclutare il personale, dal “tassista”, che gestisce i trasporti, il “venditore” che impone la vendita dei generi di prima necessità anche dietro minaccia di licenziamento, e “l’aguzzino”, quello che con la violenza impone le drammatiche condizioni di vita e di lavoro. Struttura che, normalmente, vede a capo un italiano, il più delle volte legato alla criminalità organizzata, il che gli da il doppio vantaggio di poter imporre i propri “servizi” agli imprenditori, i quali accettano senza porsi troppe domande, per paura o per convenienza. Un fenomeno articolato, in cui lo sfruttamento della forza lavoro viaggia di pari passo con la tratta di esseri umani, in cui la disperazione della miseria diventa il motore principale di queste anime in cerca di salvezza, e che invece trovano ad attenderle Caronte pronto a traghettarle verso l’inferno.

di Leandra Gallinella

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