Io sono Giuseppe Di Matteo

Io ero, Io sono Giuseppe Di Matteo. Sono morto all’età di 15 anni. Un bambino nel pieno della sua crescita. Un’adolescente con una sola colpa, quella di essere il figlio di Santino Di Matteo, un mafioso, un pentito. E i pentiti “U Curtu” non li vede di buon occhio. Minano la stabilità secolare della mafia. “U Curtu” è Salvatore Riina, anche lui morto, ma non per mano omicida come ha fatto fare a me, ma per morte naturale. Questo non è giusto, lui che ha ucciso e fatto uccidere me e molti altri. La sua morte non l’hanno decisa altri, è stata naturale. Fino all’ultimo senza pentimento. “U Curtu” è morto a ottantasei anni, lui ha fatto uccidere me a quindici. Non è giusto.

Mio padre era un mafioso poi pentito di mafia. Uno che aveva preso a collaborare con la giustizia. Ma io che ne potevo sapere di mafia e di pentiti, avevo 15 anni e la passione per i cavalli. Sono morto a 15 anni, ma la mia vita si è fermata a dodici. Quante volte deve morire un bambino? Io sono morto due volte, a dodici e a quindici anni. Avevo 12 anni quando fui strappato a mia madre. Fui rapito.

Ero il figlio di un mafioso pentito che collaborava con la giustizia. Questo non rientra nel manuale del mafioso. Quel manuale con regole di mafia, le loro regole, le stesse che seguiva mio padre quando era uno di loro, quelle regole che vanno applicate, loro non possono permettersi i traditori. Quelli, i pentiti vanno messi a tacere. Io fui lo strumento per zittire mio padre.

Non è giusto morire a 15 anni. Non è giusto morire perché si è figlio di un pentito. Le colpe dei padri non possono ricadere sui figli. Mio padre era un mafioso che ora collaborava con la giustizia, e questo la mafia non poteva permetterlo. Mi hanno ammazzato, gli stessi mafiosi con cui mio padre aveva legami. Per lo Stato Santino Di Matteo era un collaboratore di giustizia, per i mafiosi era un pentito.

Era il 23 di novembre, era pomeriggio ed io ero a Piana degli Albanesi al maneggio di Altofonte. Accarezzavo dolcemente il mio cavallo. Io ci parlavo spesso con il mio cavallo, era intelligente, mi capiva, io e lui eravamo in sintonia, meglio che con gli esseri umani. Capiva quanto mi mancava il mio papà. Lui era lontano in un posto sicuro. Mi mancava tremendamente nei momenti in cui ne avevo bisogno. Il mio papà lo pigliarono un giorno dei poliziotti e da quel giorno non l’ho più rivisto. Mi mancava il mio papà, lo sussurravo sempre al mio cavallo. Anche quel pomeriggio di novembre. Lui, il cavallo, sembrava capirmi. È proprio vero gli animali sono più intelligenti degli uomini.

Quel giorno dovevo dare retta al mio cavallo, quando vennero quei poliziotti al maneggio. Dovevo dargli retta, quando cominciò a indietreggiare nel momento che mi si avvicinarono. Per me erano poliziotti, per il mio cavallo credo di no. Aveva ragione il mio cavallo. Ai miei occhi quegli uomini in divisa erano dei salvatori, per me erano coloro che mi avrebbero fatto rivedere mio padre, invece erano dei lupi. Mi caricarono su un cassone di un furgoncino, mi legarono e mi portarono via. Ero frastornato, non capivo il perché la polizia mi aveva legato. Loro che proteggevano mio padre a me invece mi legavano e imbavagliavano.

Ho capito quasi subito, erano mafiosi, come mio padre. Mi sono fidato delle divise che indossavano, pensavo che quei poliziotti fossero venuti per portarmi da lui. Ne avevo una voglia matta. Solo abbracciarlo mi sarebbe bastato. Mi sono fidato e sono andato con loro.

Sono andato con i miei carnefici. Caricato, legato, imbavagliato e rapito sono stato portato via dal mio cavallo. Non ho potuto sussurragli nulla, non ho fatto in tempo, avrei voluto salutarlo, perché nel mio cuore ho sentito che era l’ultima volta che lo avrei visto.

Mi hanno cercato. La mia famiglia mi ha cercato. Immaginavano, perché le regole le conoscevano. Speravano diversamente per me, ai bambini non hanno mai fatto nulla. Non era così, le regole erano saltate. Per Falcone e Borsellino ci pensò il tritolo, ma loro erano la Legge. Per me…forse il tritolo non era necessario. Ma ero il figlio di un pentito, peggio che Falcone e Borsellino. Mio padre era pericoloso, poteva parlare. Non potevano ucciderlo, ma dovevano tappargli la bocca. Io ero il tappo.

Io ero il tappo che per 24 mesi chiuse la bocca a mio padre. Io, rinchiuso nel fetore di una porcilaia, aspettando di essere liberato. Il mio papà era protetto dallo Stato in qualche posto segreto. Certamente in pena per me e per la mia sorte. Sapeva che, anche se teneva la bocca tappata, mi avrebbero ucciso lo stesso, per questo ha deciso di proseguire la collaborazione con la giustizia. La mafia, quella mafia, quella di “U curtu” ha il suo manuale e non fa distinzione tra bambini e adulti.

Decisero così di ammazzarmi. A quindici anni ho sentito la morte stringersi intorno al mio collo fino a sentire l’aria mancare nei polmoni. Più le mani stringevano e più non capivo il perché. Ero inerme, floscio, non avevo la forza di oppormi, 779 giorni chiuso in una porcilaia ti rendono indifferente persino alla morte. Dovevo dar retta al mio cavallo e fuggire appena li vidi. Non ho opposto resistenza, non ne avevo la forza, mi sono lasciato andare a quella stretta così forte. Quelle mani forti e callose stringevano come una morsa. Forte, sempre più forte e la mia vita scivolò via.

Mi hanno ammazzato. Ero il figlio di un pentito. Quello che potevano risparmiarmi era distruggere il mio corpo. Dovevano almeno restituirmi alla famiglia, dovevano.

Mi hanno sciolto nell’acido…il mio corpo svanito, la mia anima pure. Mi hanno assassinato fisicamente strangolandomi e nell’anima sciogliendomi nell’acido. Non dovevano.

Mi chiamo Giuseppe Di Matteo. Anzi sono Giuseppe di Matteo. Anzi ero Giuseppe di Matteo con l’unica colpa di essere il figlio di un collaboratore di giustizia. Gli errori dei padri non possono ricadere sui figli.

Queste sono le dichiarazioni di Vincenzo Chiodo, pentito di mafia che descrivono gli ultimi momenti di vita di Giuseppe di Matteo e il modo crudele in cui fu ucciso e sciolto nell’acido:

“Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’.
(…)
Il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi.
(…)
Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra.
(…)
Io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire“.

 

di Maria De Laurentiis

 

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