L’autoreferenzialità dei mercati svela la priorità dell’inflazione sull’occupazione

Non sempre ciò che è buono per i mercati azionari è buono per l’economia. E non sempre i segnali che arrivano dai mercati sono significativi. L’ironica citazione del economista americano Paul Samuelson – il mercato ha previsto nove delle ultime cinque recessioni – descrive il concetto alla perfezione.
Molti analisti si chiedono se lo stesso valga per le recenti oscillazioni. Lunedì 5 febbraio per le Borse americane è stata la giornata con le perdite peggiori degli ultimi dieci anni. Un piccolo lunedì nero. Gli andamenti negativi si sono protratti in parte anche nei giorni seguenti e si sono diffusi a livello globale.

Eppure, questo scenario si sovrappone ad una realtà in cui sia gli andamenti che le previsioni delle economie mondiali sono positive.
Tendenzialmente, anche i mercati del lavoro dei principali paesi sembrano migliorare. In Germania, nella regione del Baden-Wuerttenberg, i sindacati hanno raggiunto un accordo che porterà all’aumento dei salari per 900mila lavoratori del 4,3%. L’accordo ha, in realtà, fatto notizia principalmente per la possibilità data ai lavoratori di accorciare la settimana lavorativa a 28 ore per massimo due anni.
Buoni segnali arrivano anche dagli Stati Uniti. Proprio lo stesso lunedì, era stato pubblicato il rapporto sui lavoratori americani che mostrava un aumento dei salari maggiore delle attese. Queste buone notizie potrebbero aver scatenato la reazione delle Borse che temono un effetto a catena. Se i salari crescono, lo stesso farà l’inflazione e ciò spingerà le banche centrali ad alzare i tassi d’interesse. In particolare, la Fed, la banca centrale americana, pianifica di alzare i tassi per tre volte durante il 2018. Quando i tassi aumentano sono i titoli a lungo termine che perdono più valore, e, inoltre, gli investitori spostano i fondi dalle azioni alle obbligazioni, che sono meno rischiose. Ed è proprio questo che spaventa le Borse.

Alle radici c’è la sostanziale, ma a volte anche formale, priorità che le banche centrali danno al controllo dell’inflazione rispetto al raggiungimento della piena occupazione. Ciò è iniziato negli ultimi trentacinque anni, mentre storicamente i due obiettivi erano considerati di pari importanza. La crisi recente ci ha mostrato che mantenere la stabilità dei prezzi non garantisce la crescita né la stabilità economica. La piena occupazione è, invece, fondamentale per far sì che l’economia sia in salute e per gettare le basi di una condivisione diffusa della ricchezza. Sono le famiglie di reddito medio-basso a subire maggiormente periodi di disoccupazione.

Inoltre, gli aumenti salariali, che tanto spaventano i mercati azionari, potrebbero in realtà non essere così significativi. In primo luogo, perché sono così bassi da non riuscire neanche a coprire le perdite dei periodi precedenti. Poi, come mostra il Financial Times, gli aumenti salariali sono trascinati da maggiori bonus intascati dai manager, in particolare nel settore finanziario. Proprio lì dove inizia il problema, come a chiudere un cerchio.

di Pierfrancesco Zinilli

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