Il lotto 285 – Capitolo dieci

“…Questo è stato il primo comunicato. Ma nella nostra casa nessuno ha voglia di leggere o, meno che mai, di meditare comunicati. Ben presto quei foglietti nuotavano nel torrente di sporcizia che, scorrendo giù dalla soffitta, alimentato da tutti i corridoi, fluisce giù per le scale, dove lotta con la corrente contraria, che sgorga giù da basso…”

Franz Kafka

Cercando di cancellare dalla memoria quella terribile scena cui avevo assistito, conscio che nulla potevo fare per dare conforto al ferito, mi allontanai e raggiunsi l’unica porta che dava sulla strada. Essa aveva un solo  battente aperto, come si conviene in presenza di un evento luttuoso, anche se non avevo visto alcun morto, o una bara, o un funerale officiato all’interno della caserma. Perciò attribuii quell’apertura inconsueta alla semplice incuria di chi era addetto, se mai fosse esistito, alla custodia del luogo. Ma, si sa, non sempre i portieri si trovano all’interno della guardiola e quindi rimasi con il dubbio che anch’egli si fosse rifugiato in qualche posto sicuro.

Di fronte all’ingresso, dall’altra parte della strada, notai una via in leggera salita che conduceva a qualche costruzione che sembrava abitata, o, perlomeno, che lo fosse stato. Sui lati della strada erano disposti dei lampioni della luce, cosa insolita in quella borgata dove forse l’energia elettrica non era ancora arrivata o che forse aveva subito un danneggiamento a causa dei continui bombardamenti su luoghi sensibili, come appunto centrali elettriche, gasometri, scali ferroviari, od altro. Ma, essendo ancora lontano il tramonto del sole, non potevo verificare se i lampioni si sarebbero accesi o meno alla sera. Perciò, senza spettare l’illuminazione, continuai a salire per l’erta, e mi trova davanti a una costruzione bassa, dalla facciata piatta, i cui muri erano dipinti di una tinta giallastra, che virava verso un giallo canarino, e la cui porta aveva un unico battente aperto all’esterno, con sopra un  manifesto multicolore. Doveva essere un teatro o un cinema, visto che la volta a cupola faceva pensare ad un congegno, che, a quei tempi era uso aprirsi e chiudersi sulle sale cinematografiche per arearle. Infatti, ben visibile sulla facciata, si ergeva una scritta al neon, a caratteri cubitali,  che nell’oscurità probabilmente sarebbe stata accesa, che diceva: “Cinema Massimo”. Il manifesto variopinto, posto sull’unico battente, annunciava probabilmente la pellicola che si stava proiettando. Il sole stava calando, quindi non distinsi subito e completamente il titolo del film, che doveva essere qualcosa che inneggiava alle gesta di un pilota durante la guerra passata. Comunque entrai e notai subito che la cassa era deserta, che solo una delle spesse tende rosse che mi separavano dalla platea era aperta e annodata a un pomello d’ottone a lato. Quei particolari mi fecero subito venire in mente il portone della caserma che avevo appena lasciato, anch’esso aperto a metà, e ebbi la sgradevole sensazione che attorno aleggiasse un’atmosfera di lutto per una morte recente.

Superando la tenda entrai in una sala semibuia, semideserta, se non per alcune persone che vedevo sedute nelle prime file delle poltrone, anch’esse foderate di rosso. Sul palcoscenico, al centro, scorsi quella che doveva essere una bara ancora aperta, poggiata su due cavalletti, mentre, sullo schermo scorrevano le immagini sfarfallanti di un film di guerra, con in primo piano il volto del protagonista che era all’interno della carlinga di un aereo e salutava con una mano guantata un plotone di avieri che si erano radunati presso il velivolo. Aveva un casco di cuoio con due orecchie pendenti ed una fibbia allacciata sotto il mento, un paio di grossi occhiali ed un giubbotto di pelle che era sovrastato da una spessa aureola di pelliccia che gli avvolgeva il collo e le spalle. Sulla fiancata del velivolo rivolta al pubblico si poteva scorgere, stampato in nero, quello che doveva essere il marchio che contraddistingueva la squadriglia a cui il velivolo apparteneva: era l’immagine di un aquilotto che si lanciava a capofitto nell’aria, con uno sguardo aggressivo, come se stesse puntando una preda, e le ali stese lungo i fianchi, che il disegno faceva apparire contornate da segni che sembravano fulmini o semplici segni che caratterizzavano l’aria smossa da quella violenta picchiata.

Le persone che assistevano a quella insolita cerimonia erano vestite a lutto ed erano accostate le une alle altre in una sorta di abbraccio confortante. Da quel gruppo funereo sentivo alzarsi una sorta di mormorio lamentoso che, a tratti si acuiva fino a diventare stridulo, per poi riabbassarsi in una sommessa, inquietante cantilena. Non avevo mai assistito ad una siffatta cerimonia, così spettacolare per giunta, ed ebbi l’impressione che ad officiarla fossero individui adusi ad usare le recenti tecniche di propaganda che erano tipiche della politica culturale del regime.  Il film infatti appariva come una sorta di inno alla guerra di conquista, visto che si svolgeva in massima parte nel continente africano, teatro delle terribili incursioni della  nostra aviazione contro le popolazioni inermi di quell’aerea. Ma, alla fine, come spesso accade nella finzione, il protagonista moriva, schiantandosi col suo aereo sulle dune del deserto della Dancalia. Una certo sentimento di pietà mi sostenne nell’avvicinarmi a quelle persone che, ne ero certo, stavano vegliando una salma di qualcuno caduto nell’adempimento del proprio dovere, un semplice aviatore forse, o più una persona di grado elevato, visto l’omaggio che veniva lui offerto come tributo a una sorte eccezionale, eroica, che mi sentivo di credere avesse riguardato il morto. Avvicinandomi alla bara scoperchiata e foderata di velluto azzurro, non senza prima essermi scusato della mia intrusione con gli astanti in preghiera, mi accorsi che si trattava di un giovane dal volto sereno, senza particolari segni che facessero pensare ad una morte violenta, vestito di una divisa azzurra, con un corpetto stretto e dai bottoni dorati, lunghi pantaloni con la piega davanti ed uno spadino infoderato e legato alla vita da un cordolo anch’esso dorato che ancora scintillava nelle fioca luce della sala.

Non ebbi altro pensiero che si trattasse di un allievo ufficiale pilota, certo non caduto in battaglia, visto che gli allievi, come sempre, si aspettava che venissero nominati piloti alla fine della dura accademia che li preparava a quel successivo passo, e che quindi non potessero essere impiegati  in alcuna azione di guerra. Ma mi accorsi, nell’alzare gli occhi da quel corpo inanimato, che nell’aria circostante fluttuavano delle piume, illuminate dalla luce tremolante del proiettore, che sembravano cadere come neve dall’alto della cupola aperta attraverso la quale si scorgevano le prime stelle della sera. Erano piume bianche, leggere, ma con un colorito nero sbiadito alla base, quasi fossero appartenute ad un corvo o ad altro animale dal nero piumaggio che si fosse trovato sul tetto. Notai che quell’insolita circostanza non destava alcun interesse negli astanti in preghiera, anzi veniva guardata come una sorta di segno che avessero aspettato da tempo, qualcosa che richiamava loro la memoria di qualche caratteristica appartenuta al defunto. Mi volsi quindi a studiare da dove provenisse quella cascata di piume ma mi accorsi ben presto che essa, anziché scendere dall’alto, proveniva dall’interno della bara, quasi fosse spinta da qualche refolo che si sprigionava dalle assi del palcoscenico che stavo calcando. Pensai a qualche volatile che fosse stato introdotto accanto al corpo senza vita dell’allievo a testimoniare la sua eventuale passione per l’arte venatoria, ma mi sembrava una cosa alquanto macabra ed inusuale per i tempi moderni nei quali vivevamo. Poi pensai a vapori che potevano essere stati emessi dal corpo inanimato che giaceva nel feretro già da alcuni giorni, visto il tempo che si doveva impiegare, in tempo di guerra, per organizzare una sepoltura, o al cuscino di piume che si fosse potuto essere strappato con il peso del corpo. Entrò un cane lupo, che s’accostò alla bara e prese ad annusarla emettendo continui guaiti e poi, allontanandosi, si mise a giocare con le piume che ancora svolazzavano nell’aria e ricadevano sul pavimento. Alcune di esse, notai, avevano una coloratura nerastra ed, al tatto, avevano un ché di appiccicaticcio, quasi si fossero staccate da qualcosa immersa nella pece.

di Maurizio Chiararia

(continua)

 

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