L’allarmante rapporto dell’ONU sul clima

Nei giorni scorsi è stato pubblicato il sesto rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change dell’ONU) sul cambiamento climatico; le sue conclusioni suscitano un motivato allarme e meritano qualche riflessione.

Prima di tutto si nota un piccolo, significativo cambiamento: nel rapporto non si parla più di “crisi climatica” ma di “emergenza climatica”.

È solo una parola ma fa la differenza, perché marca l’urgenza di una risposta immediata, proprio ciò che è finora mancato. Dice inesorabilmente che c’è poco, pochissimo tempo.

In secondo luogo il rapporto mette in evidenza che non basta più, ormai, ridurre le emissioni di CO2, come ha dimostrato la riduzione verificatasi durante l’anno del lock down pandemico (-7%). Infatti, la temperatura ha continuato a salire anche nel 2020. Non c’è nulla di strano in questa apparente contraddizione: pur riducendo le emissioni, la CO2 prodotta resta comunque nell’atmosfera e si somma a quella preesistente, mentre la sottrazione di CO2 da parte di alghe e piante verdi non è in grado di farla diminuire. In altre parole abbiamo già superato un punto di non ritorno, e quel che prima sembrava sufficiente, cioè la riduzione delle emissioni, ormai non basta più.

Proprio nel luglio di quest’anno la ricercatrice brasiliana Luciana Gatti ha pubblicato su Nature un interessante studio sul “respiro” della foresta amazzonica, fino a ieri così importante per produrre ossigeno e assorbire anidride carbonica per il pianeta. Ebbene, una parte della foresta ormai produce più CO2 di quanta non ne assorba, mentre in circa la metà della sua estensione il bilancio è in pareggio. È il risultato della deforestazione abbinata agli incendi, sempre più vasti e frequenti. Tutto questo perché qualcuno vuol produrre più hamburger o soia, cioè “per qualche dollaro in più”.

Se l’inquietante fenomeno è stato dimostrato in Amazzonia con uno studio ad hoc, è del tutto plausibile che si verifichi in tutti i boschi e foreste del mondo, dalla California alla Grecia, dalla Siberia all’Italia: il fenomeno degli incendi boschivi, che ogni anno supera un nuovo record in questa tragica corsa verso l’autodistruzione, tende a rendere negativo il bilancio tra assorbimento e produzione di anidride carbonica da parte degli alberi. Secondo lo stesso studio, inoltre, la riduzione delle foreste modifica direttamente il clima locale riducendo le piogge, ciò che a sua volta rende più facili e gravi gli incendi: un perfetto circolo vizioso. 

È ormai evidente che la riduzione delle emissioni di CO2 – sebbene ancora non realizzata, tranne che del tutto involontariamente durante la pandemia – non è in più grado di riportare indietro la situazione: bisognerà accontentarsi di rallentare e forse fermare l’aumento della temperatura e, se si inizia subito, forse ridurremo i danni di questa emergenza climatica. Ma i danni già ci sono e continueranno ad esserci.

In sostanza l’aumento della CO2 nell’atmosfera, lo scioglimento dei ghiacci con il conseguente innalzamento dei mari e l’aumento della temperatura media planetaria non sono fenomeni reversibili nell’immediato: resteranno a lungo, anche dopo aver raggiunto l’obiettivo di ridurre le emissioni, sempre ammesso che lo raggiungiamo. Questo avrà l’effetto di moderare la crisi climatica, non di eliminarla. Tuttavia, se non si comincia subito ad attuare una drastica riduzione, sarà un cataclisma ben peggiore. Secondo una recente indagine pubblicata su The Lancet Planetary Health, il numero di morti causato dai cambiamenti climatici nello scorso decennio sarebbe stato di almeno cinque milioni l’anno; secondo altre stime più pessimistiche, i morti supererebbero i dodici milioni l’anno; ma, ovviamente, la mortalità è solo la punta dell’iceberg di questa devastazione. Una pandemia peggiore del Covid, fatta di carestie e migrazioni di massa.

Con tragica ironia, il fenomeno fa soffrire particolarmente le popolazioni che meno hanno contribuito a crearlo: mi riferisco, ovviamente, alle popolazioni più povere del sud del mondo, assediate da desertificazione e siccità.

Infatti, se è vero che già il 29 luglio (la data dell’Earth Overshoot Day 2021) l’umanità nel suo insieme ha consumato le risorse disponibili del pianeta, analizzando tale consumo si scopre che a quella data i paesi ricchi avevano già da qualche mese esaurito le risorse (l’Italia il 13 maggio, gli USA molto prima), mentre i paesi più poveri se le fanno bastare per tutto l’anno. In altre parole, noi ricchi abbiamo un debito di riconoscenza verso i poveri, perché solo grazie alla loro povertà la situazione non è molto peggiore.

Nonostante ciò, con irriconoscente crudeltà, respingiamo coloro che cercano di fuggire dalla povertà creata – o per lo meno peggiorata – proprio da noi.

Le conclusioni che possiamo trarre da questo sesto rapporto sono sostanzialmente due.

È assolutamente necessario ridurre le emissioni di gas serra molto di più e molto prima di quanto previsto nei precedenti (e disattesi) accordi internazionali. È difficile, ma non impossibile.

In secondo luogo, essendo ormai dimostrata l’insufficienza di tale tipo di provvedimento, è diventato mandatorio riuscire a sottrarre CO2 dall’atmosfera. Ed è ancora più difficile.

In realtà la riduzione della CO2 atmosferica ha un precedente storico o, per meglio dire, geologico. Infatti, quando il pianeta Terra ha iniziato a raffreddarsi, l’atmosfera era pressoché priva di ossigeno, ma ricca di metano ed anidride carbonica (i due principali gas serra), eruttati dagli innumerevoli vulcani attivi.

In quell’inospitale pianeta di milioni d’anni fa, si è imprevedibilmente realizzato il miracolo della vita. Poi, dalla simbiosi tra alcune cellule primordiali ed alcuni batteri è nato il fenomeno della fotosintesi clorofilliana, che ha cominciato a produrre ossigeno ed a ridurre l’anidride carbonica dell’atmosfera. Questa, disciolta nelle acque oceaniche, è stata utilizzata da primitive forme di vita per costruirsi un guscio calcareo; sebbene tali animaletti fossero in prevalenza unicellulari, hanno sottratto tanto carbonio da costruire buona parte delle rocce del pianeta. Da noi la più bella testimonianza del fenomeno sono le Dolomiti. Così, lentamente, l’atmosfera si è modificata, diventando respirabile per le innumerevoli specie che hanno popolato e popolano il pianeta: anche per noi, che stiamo facendo di tutto per renderlo di nuovo inospitale.

Sembra una favola, invece è storia, scritta nei caratteri dell’evoluzione e della natura, che abbiamo dimenticato per costruire strade, automobili e centrali termoelettriche. Questa storia geologica ci indica una via: diventare alleati della natura, imparare ad assecondarla, diventare i solerti giardinieri delle foreste, i curatori del mare; tornare a sentirci figli della madre Terra, non suoi voraci padroni. È davvero necessario un cambiamento di paradigma, ma non semplicemente politico ed economico: serve una radicale ridefinizione del ruolo dell’umanità. Forse, dovremmo cambiare la nostra mentalità, convertire i nostri cuori. Prima che sia troppo tardi.

di Cesare Pirozzi

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