Mafia Capitale: l’origine criminale

Una storia di avaritia, cioè di cupidigia, avidità di denaro, deturpante la coscienza di Roma, dove si antepone la ricchezza all’onore.

Mafia e criminalità romana, parla Otello Lupacchini, il magistrato esperto di criminalità organizzata che si occupò della Banda della Magliana.

Come si concilia di fatto la fisiologia dei processi che vedono imputati operai e/o ingegneri del crimine con le aspettative dell’opinione pubblica?

La domanda non consente risposte semplicistiche.

Oggi, ma non soltanto da oggi, ci troviamo di fronte ad una crisi di legittimazione del sistema penale. È diffusa, infatti, la sensazione di una giustizia penale inefficiente e inefficace, che penalizza a sorteggio, che lascia impuniti troppi crimini e che, non guidata da una seria politica criminale, compie scelte di criminalizzazione non sufficientemente ponderate ed empiricamente verificate, esposte dunque al rischio del fallimento. A tal riguardo, è senz’altro vero che gli interventi repressivi sono operati spesso sull’onda di presunte istanze sociali di tutela penale, per lo più di natura contingente e irrazionale, derivate dall’allarme sociale che certe forme di criminalità sembrano suscitare. E proprio perché operate in funzione di pura rassicurazione sociale, simili scelte sono destinate all’insuccesso. Secondo un principio di circolarità, peraltro, queste sconfitte generano a loro volta sfiducia nella capacità di controllo sociale del sistema penale stesso, il quale a sua volta, pur di recuperare credibilità, si orienta a favore di risposte punitive eccessivamente severe e non sufficientemente giustificate secondo il paradigma dell’efficienza.

Un vero disastro, insomma, sol che si pensi come, per essere regolare, costante e adeguato alle esigenze di tutela penale, il movimento del cancello del regno della pena dovrebbe ruotare attorno ai cardini fondamentali della fiducia dei cittadini nella legalità-legittimità ed efficacia dell’ordinamento penale e poggiare su quello del consenso sociale.

Quella del sistema penale è, dunque,  la crisi di un sistema in balia dell’opinione pubblica, la quale soprattutto attraverso i mass media viene fatta partecipare al governo della giustizia penale. A tacere degli effetti, spesso incresciosi, legati all’ingresso delle telecamere nelle aule giudiziarie e dell’impatto snaturante nei confronti del processo, in cui tutti diventano narcisisticamente protagonisti, assumendo atteggiamenti, in maggior o minor misura, viziati, con scadimento sia della tutela dei diritti dei singoli, sia dell’immagine banalizzata di una giustizia spettacolo, non posso fare a meno di sottolineare come l’aumento delle informazioni non accresce e talvolta anzi ostacola la conoscenza dei problemi: assieme all’informazione c’è anche la disinformazione, con cui si alterano i dati, sui quali il pubblico può esprimere il suo giudizio. E, cosa che  non sfugge agli osservatori più avvertiti, i mass media sono in grado di mutare il livello sia di paura del crimine sia della criminalità obiettivamente rilevata, in quanto trasmettono informazioni distorte tanto sui reati quanto sul controllo sociale: i mezzi di comunicazione di massa, ad esempio, che incessantemente coprono di biasimo le comuni violazioni del codice penale, non giudicano allo stesso modo il crimine dei colletti bianchi

Purtroppo, sempre più spesso, il pubblico accetta acriticamente tale disinformazione ed è indotto a nutrire pensieri distorti ed a fare cose cattive o a rinchiudersi in un qualunquismo astenico: imbottiti di pubbliche opinioni, armati di luoghi comuni, risentiti contro ciò che minaccia la rispettabilità della nostra pigrizia mentale, siamo al riguardo assai spesso goffamente seri, battaglieri ed intransigenti, ed assumiamo il tono categorico dell’uomo banale, il quale è forte nel sentirsi fiancheggiato da una gran massa di propri simili che pensano esattamente come tutti pensano, sentono come tutti sentono, giudicano come giudica Monsieur Tout le Monde. Abdichiamo cioè ad un pensiero proprio ed alla conseguente responsabilità e prendiamo una personalità a nolo.

Dopo la disarticolazione del sodalizio della Magliana, si sono registrati cambiamenti nelle cosiddette professionalità criminali, nella rete dei rapporti con gli apparati e centri di potere?

È fuor di dubbio. L’osservatore disincantato è ormai pienamente  consapevole del fatto che oggi il potere criminale si afferma con la spartizione consensuale del territorio e degli affari delinquenteschi e che questo ha comportato per i delinquenti l’esigenza di specializzarsi. C’è, infatti, chi si dedica al riciclaggio, al reinvestimento di denaro, all’usura su larga scala, tutte attività con cui si ha la sensazione di non sporcarsi le mani; e c’è chi coltiva, invece, altri interessi, dedicandosi ai reati contro il patrimonio e alle estorsioni, alla gestione della prostituzione e del gioco d’azzardo. Roma, infine, è anche il più importante mercato della droga del Paese. Un traffico di questa portata, controllato da grandi organizzazioni, induce a spartirsi il territorio affinché le consorterie di malfattori non vengano alle armi. E se c’è la spartizione di territorio e traffici delinquenteschi, c’è anche controllo capillare da parte di chi garantisce il «pacifico esercizio» delle attività illecite sul territorio stesso. Il modello è sempre quello de L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht, solo adattato ai tempi nuovi: anche i piccoli traffici hanno bisogno di «tolleranza» da parte di chi detiene il potere criminale nel territorio in cui si esercitano. Il territorio è controllato militarmente dai delinquenti, ma gli eserciti in conflitto sono in condizione di trovare un equilibrio che garantisca la pace. Se poi qualcuno contravviene alle regole, ci scappa il morto. Se gli omicidi sono pochi non è, dunque, un fatto rassicurante, ma allarmante, perché significa che gli equilibri reggono e non c’è bisogno di imporli manu militari. È da questa consapevolezza che si deve e potrà ripartire ai fini di modulare i più efficaci strumenti di contrasto.

Il problema, tuttavia, a quest’ultimo proposito, è l’obiettivo cambio di registro nell’atteggiarsi dei rapporti fra il crimine organizzato, i detentori del potere ai quali è rimessa l’elaborazione della politica criminale, gli apparati securitari e di intelligence, a cui compete l’attività di contrasto. Temporibus illis, quando l’Italia era campo di manovra per la cosiddetta Guerra fredda, quella che si combatteva tra servizi segreti per i mantenimento dei patti di Yalta, la criminalità era uno strumento in mano agli strateghi di quel conflitto. Era, insomma, «signoreggiata» dalla politica e dagli apparati. Oggi il rapporto sembra essersi rovesciato: è ormai la criminalità a guidare le danze. Sarà forse perché nel crimine organizzato, diversamente che nella politica e negli apparati da essa controllati, vigono rigidi «criteri meritocratici» per la selezione della «classe dirigente», in quanto chi non è all’altezza del ruolo e ardisce rivendicarlo, finisce male: nella migliore delle ipotesi marcisce in galera, l’alternativa è l’obitorio, senza neppure passare per l’ospedale. 

La Mafia da sempre mette le mani su Roma per controllare e corrompere i centri decisionali del potere, mostrando di adattarsi ai nuovi scenari e “affari”. C’è un collegamento storico, un filo che si dipana tra la mafia degli scorsi decenni e quella di oggi? Quali le differenze e i profili di attualità tra mafia della Magliana e odierna mafia capitale? Quali i nuovi paradigmi?

Dai tempi della Banda della Magliana, è cambiato tutto, dall’assetto geopolitico del pianeta a quello sociopolitico dell’Italia. Per quanto possibile è cambiata sostanzialmente anche Roma. E in tutti questi cambiamenti, nel passaggio dalla prima alla seconda fino alla Terza Repubblica, la Capitale, metafora dell’intero Paese, è ormai una città in disfacimento sul piano morale, cui fa da contraltare il decadimento materiale, sotto gli occhi di tutti.

Nel susseguirsi dei cambiamenti, la banda della Magliana ha assunto progressivamente i caratteri del mito: i suoi affiliati, sia i morti sia specialmente i sopravvissuti, non sembra ormai abbiano nulla da invidiare agli eroi cantati nei grandi poemi epici. È forse proprio per questo motivo, che spesso i media, ma anche gli inquirenti, rincorrono il pedigree dei protagonisti delle vicende criminali che narrano, o ricostruiscono, nel tentativo di esaltare la truculenza dei fatti, rimuovendone però, così, paradossalmente il disvalore.

Mi chiedo, al riguardo: se la cloaca scoperchiata dall’inchiesta denominata «Mafia Capitale» non fosse popolata da vecchi malavitosi,  asseritamente «redenti» dal carcere, e se ai vertici del sistema corruttivo portato ad emersione dalle indagini non fossero coinvolti dei signori banditi, se, finalmente, dovesse malauguratamente cadere l’ipotesi della mafiosità, il disvalore dei fatti criminali ascrivibili all’associazione indagata sarebbe forse meno grave? Certamente no! Eppure, la costruzione dell’allarme sociale passa attraverso l’esaltazione di questi  «accidenti», al punto che non manca chi, prospettandone, o magari augurandosene addirittura, il dissolvimento, nel corso dell’iter processuale, minimizza già il disvalore penale dell’intero fiume di malaffare,  portato sin qui alla luce, quasi esso fosse alla fin fine tollerabile.

Pensa ci sarà una mafia capitale 3 oppure il sistema si auto proteggerà non permettendo ulteriori sviluppi?

L’osservatore disincantato presume ragionevolmente che la saga di Mafia Capitale riservi nuovi capitoli: il fronte della valanga è ormai in movimento e, a meno di un miracolo, non parrebbe sussistano le condizioni perché s’arresti, all’improvviso. Ma i  soliti fin troppo bene informati assicurano che «Mafia Capitale 2» sia una semplice «scossa d’assestamento». Chissà chi ha ragione?

Quali misure, preventive e/o repressive possono dirsi efficaci?

Bella domanda. La risposta repressiva è fallimentare: per un verso fotografa un insuccesso, quello della prevenzione; per l’altro, è necessariamente occasionale: i giudici accertano «fatti» e ne predicano il valore; non contrastano «fenomeni». A quest’ultimo scopo è necessaria l’elaborazione di un’efficace politica criminale. Ma quest’opera titanica implicherebbe una rivoluzione antropologica, che non investa soltanto il ceto politico, ma l’intera società italiana.

Cos’è l’antimafia?

È una parola, è aria che vola…

Come pensa possa essere raccontata dagli storici, dai critici, dai romanzieri  la storia di mafia capitale tra un secolo? 

Ogni  personaggio di  «Mafia Capitale» è personificazione di vizi deprecabili. La sua, per dirla coi nostri Maiores, è, innanzitutto  una storia di avaritia, cioè di cupidigia, avidità di denaro, deturpante la coscienza di Roma, dove si antepone la ricchezza all’onore. Ma è anche una storia di superbia, che è tracotanza, alterigia ingiuriosa, sicurezza della propria potenza intangibile, e che quando è l’atteggiamento di un politico diventa violazione dei diritti degli umili, colpevole prepotenza, offesa alla dignitasdei cittadini. Essa è finalmente una storia di ambitio, che è passione furiosa fuorviante gli animi dal retto cammino, così da indurli a mentire, adulare, circuire i potenti, smania di arrivare senza badare ai mezzi, tipica di chi non ha avuto mai nulla, di chi sa di non avere la strada spianata da un nome illustre, ossia complesso d’inferiorità che rende intriganti nel far carriera e arroganti quando si sia raggiunto il potere.  Ottimi ingredienti per una narrazione memorabile.

di Antonella Virgilio

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