Pensieri di un insegnante d’italiano in una piccola moschea

Come tutti i lunedì oramai da quattro mesi, vado alla moschea di Torpignattara ad insegnare italiano. È qualche settimana che molti dei miei studenti, tutti adulti, arrivano in ritardo, e che qualcuno di quelli che rimane lì fuori ad aspettare con me, mentre fumo per smorzare l’ansia che ho prima di ogni lezione, insiste per offrirmi un caffè. Oramai, quindi, dovrei aver imparato che sarebbe il caso di andare senza averlo già preso, ma anche stavolta ho fatto l’errore di passare un po’ di tempo al bar prima di mettermi in macchina e guidare fino al quartiere più multietnico della Capitale. Sono deciso quindi a rifiutare per l’ennesima volta, ma quando arrivo trovo solo due di loro. Abbiamo spostato l’orario della lezione, perché dobbiamo incastrarci con quello della preghiera, che a sua volta cambia di continuo, dovendo rispettare i capricci del sole: si prega non appena questo tramonta, non più tardi. L’effetto è stato che, nonostante fossimo tutti d’accordo sul cominciare alle cinque, molti non sono venuti, e farmi spiegare da loro il perché è ancora difficile. Ma questa è colpa mia, vado lì per quello, segno che il mio lavoro è lungi dall’essere terminato. Rimaniamo fuori ad aspettare, e l’occasione è troppo ghiotta per Hannan che, allora, insiste per offrirmi un caffè. Sento invece che non posso rifiutare, non di nuovo. Allora andiamo verso il bar lì vicino, e vedo che è contento. Lo sono anch’io. Beviamo il caffè e torniamo davanti alla moschea, ma siamo sempre in tre. Io, manco a dirlo, fumo ancora, ma si sta facendo tardi e non possiamo aspettare ancora, quindi scendiamo. Cominciamo la lezione e ci scontriamo con i riflessivi. Sorvoliamo. Nel frattempo ci raggiungono Miah e Salma, una coppia. Salma è l’unica donna a frequentare le mie lezioni, e Miah è lo studente più attivo e sveglio. Gestiscono un piccolo autolavaggio, e da settimane mi chiedono di portare la mia macchina da loro. Ovviamente non vogliono farmi pagare, e ovviamente io invento scuse per non andare. Finisce la lezione, mi ringraziano, mi salutano e ci stringiamo le mani. Mentre ci rimettiamo le scarpe, Miah mi chiede se tornerò subito a casa. Gli dico di sì, che devo scrivere e studiare. Lui mi dice: “Ah!, ti prepari per il futuro”. L’espressione dei miei occhi parla per me, ma aggiungo comunque: “Mah, vediamo un po’ come sarà questo futuro”. Mi accorgo subito dell’errore. Per loro il destino è segnato, quello che succederà è volere di Allah. Di fatti lui mi risponde: “Il futuro è già stabilito. Possiamo seguirlo o scappare per evitarlo”. Sorrido e non rispondo, aspetto che siano pronti entrambi per uscire e salutarli. Ed ecco che, come temevo, insistono per offrirmi un caffè. Neanche stavolta posso rifiutare, sono pronto al terzo round. Mentre andiamo verso il bar però, Miah cambia idea, parla con Salma, poi mi dice: “devi mangiare qualcosa del nostro paese, vieni, solo dieci minuti”. Io provo a rifiutare, effettivamente non ho fame, e sono in imbarazzo. Ma vedo che ci tengono, Salma sorride e Miah mi guarda benevolo, so che sarà fiero di avermi fatto mangiare qualcosa che viene dal Bangladesh, di avermi fatto conoscere un pezzo del suo mondo. Così, ci dirigiamo tutti e tre verso via di Torpignattara. In realtà io non so dove stiamo andando, vorrei seguirli, ma loro insistono ad ogni occasione per farmi passare avanti.

Sono abituato a far passare prima le donne, mi viene istintivo, ma capisco che per loro non funziona così. In quel momento vogliono mostrarmi tutto il loro rispetto, devo passare io per primo. Mi rendo conto che questa vaga forma di cavalleria non ha senso per loro, così, pur non sapendo dove devo andare, cammino io davanti. Dopo un po’ si fermano di fronte a un ristorante, entriamo, dentro c’è poca gente, nessun italiano. Ci mettiamo seduti, prendiamo il menu. Siamo felici come bambini. Il proprietario è un po’ grottesco, l’accoglienza non è delle migliori e, seppure non saprò mai cosa si sono detti, credo che non sia stato molto cortese neanche con Miah. Ordiniamo un piccolo involtino con verdura e due tipi di dolce. Nonostante io ripeta che non ho assolutamente fame, loro insistono sul fatto che io debba assaggiare più cose possibili. Già così, è un buon compromesso. Nel frattempo, cominciamo a parlare. In fondo al locale sul televisore va in onda Godzilla in versione originale, e i suoni di quei ridicoli effetti speciali ci fa da sottofondo. Mi chiede (Miah, perché Salma parla ancora tre parole di italiano, nonostante io vada fiero dei progressi che ha fatto) se sono sposato. Io rido, come ho fatto ogni volta che mi è stata fatta questa domanda, ma so che per loro è strano che io non lo sia, e lo sono altrettanto le mie risate. Allora cambio discorso e parto al contrattacco. Gli chiedo come va il lavoro, se non gli manca il Bangladesh. E Miah comincia a raccontarmi tutto, del lavoro che non va, delle spese che superano le entrate, che non avrà la possibilità di mettere da parte un soldo. Mi dice che tra qualche mese vogliono tornare a casa, lui e Salma.

Vogliono tornare in Bangladesh per almeno un paio d’anni, poi tornare qui in Italia per rinnovare i documenti, poi spostarsi per l’Europa. Dicono che qui non c’è futuro. Gli chiedo se nel loro paese hanno casa, e mi risponde di sì. Allora gli chiedo perché sono partiti, e lui mi dice che quindici anni fa, aveva una vita perfetta, lavoro e benessere, ma che per ragioni politiche, che non mi spiega, è dovuto scappare. Per quindici anni ha girato il mondo, letteralmente. Mi ha raccontato per filo e per segno come si comportano i cittadini di un’infinità di paesi, e ora è qui, che vuole lavarmi gratis la macchina. Adesso, mi spiega, c’è qualcun altro al potere in Bangladesh, e loro possono tornare. Ma oramai il benessere di un tempo è perduto, quindi dovrà tornare nel vecchio continente a cercare nuova fortuna. E io penso a com’è strano il mondo. Quanto ha da insegnare, Miah, a tutti quelli che ogni giorno lo guardano pulirgli il cofano? Anche io vorrei andarmene, Miah caro. Non sai che strano mi fa, stare seduto in questo ristorante e sentirmi dire che in Italia non c’è futuro. Che te ne tornerai a casa, come tanti altri stranieri come te. E questo dimostra che qui è rimasto ben poco, tanto per me quanto per te. Il guaio, caro Miah, è che io a casa ci sono già. E temo che la mia strada non sarà poi così diversa dalla tua.

di Simone Cerulli

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