Corte di cassazione, Sezione terza, Sentenza 14 luglio 2011 n. 15453 Risarcimento: sì ai danni da emotrasfusione anche se il virus era poco conosciuto.

antonella

Corte di Cassazione, Sezione Terza, Sentenza 14 luglio 2011 n. 15453. “La responsabilità del Ministero della Salute e della struttura ospedaliera in merito alla qualità del sangue utilizzato per le trasfusioni sussiste anche per gli accadimenti anteriori alla legge 107/1990, che regolamenta le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati. “Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 15453/2011, accogliendo le doglianze dei congiunti di un paziente morto diversi anni dopo un ricovero, per una serie di fratture multiple, durante il quale aveva contratto una forma allora poco conosciuta di epatite (Epatite “C”) a causa di ben undici trasfusioni. Secondo le Eminenze grigie “indipendentemente dalla specifica conoscenza del virus Hcv”, ben poteva il personale medico “sulla base di più datati parametri scientifici, rilevare comunque la non idoneità del sangue ad essere oggetto di trasfusione”. Infatti, anche prima della legge 107/1990 sussisteva comunque un obbligo di vigilanza a carico del Ministero. Il tribunale di Chiavari respingeva la domanda degli attori e successivamente la sentenza veniva confermata dalla Corte d’Appello di Genova, la quale affermava in particolare che la difesa degli appellanti sembrava non rendersi conto del fatto che non si trattava di ritenere riconducibili la responsabilità del personale sanitario a omissione di precauzioni doverose piuttosto che a inosservanza di norme di legge, bensì di prendere atto che nessuna precauzione era adottabile nel contesto scientifico ed operativo in cui la fattispecie si collocava, onde di nessuna cautela in concreto poteva essere ad alcuno addebitata l’omissione. Invece, i giudici della S.C., partono dal rilievo che, prescindendo dalla specifica conoscenza del virus Hcv, la sussistenza comunque di un obbligo di vigilanza e di controllo in materia di attività trasfusionali di sangue umano e di suoi derivati per uso terapeutico a carico del Ministero della Salute, dovrebbe condurre a ravvisare un comportamento omissivo colposo, consistente nell’inosservanza dei suoi doveri istituzionali in materia e conseguente risarcimento del danno da emotrasfusioni ed assunzione di emoderivati per omessa vigilanza sul sangue raccolto e poi utilizzato. Di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge, dunque si arresta la discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. L’obbligo del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati, postula un dovere particolarmente pregnante di diligenza nell’impiego delle misure necessarie a verificarne la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre ogni possibile rischio di forme di manifestazioni patogene da virus veicolati da sangue comunque infetto. Del resto è pacifico come lo Stato in ottemperanza alle direttive Comunitarie, debba apprestare un quadro regolamentare che imponga agli ospedali pubblici e privati di adottare misure idonee ad assicurare la protezione della vita dei malati, nonché di predisporre un sistema giudiziario efficace ed indipendente che consenta di accertare le cause del decesso di un individuo che si trovi sotto la responsabilità degli operatori sanitari e, se necessario, di obbligare questi ultimi a rispondere dei loro atti, con possibilità per le vittime di ottenere sul piano pratico un ristoro per i danni subiti. Ai fini della valutazione della responsabilità del personale che eseguì la trasfusione la Cassazione ha fissato alcuni importanti paletti. In primis, la prescrizione decorre dalla conoscenza della malattia e non dall’evento contagioso. Dunque, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio il virus per fatto doloso o colposo di un terzo, viene fatta decorrere non a partire dall’evento lesivo, né dal momento in cui la malattia si manifesta, bensì da quando il paziente percepisce o potrebbe percepire la malattia stessa quale conseguenza del comportamento doloso o colposo del terzo. Decisione, questa, giusta e ragionevole se si considera che la malattia da contagio è un fatto dannoso lungolatente, che emerge anche a distanza di anni da quando un terzo ha tenuto la condotta colposa. Poi, la legittimazione passiva in ordine al risarcimento è sia del Ministero ex art. 2043 c.c. per violazione del principio del neminem laedere (ai sensi del quale chi cagiona tramite un fatto illecito ad altri un danno ingiusto è tenuto al risarcimento dello stesso), che della struttura sanitaria e dei medici (quest’ultima responsabilità a carattere contrattuale ex art. 1218 e 1228 c.c.), relativamente al danno cagionato in esecuzione delle prestazioni dovute per inesatto adempimento. Tra l’altro si noti come in materia di danni cagionati in seguito ad interventi chirurgici (vista la fondamentale importanza del bene salute che viene compromesso), ben possono cumularsi la responsabilità contrattuale da inesatto adempimento, e la responsabilità extracontrattuale da lesione dell’integrità psico-fisica. E ancora, nella valutazione circa l’evidenza di uno specifico virus nel sangue, si deve far riferimento agli obblighi di vigilanza disposti in generale dalla legge e dalle evidenze scientifiche. Infine, sotto il profilo del nesso eziologico, la causa dei danni alla salute del paziente può ben derivare da una condotta omissiva. Un aspetto forse trascurato e sul quale sarebbe invece opportuno offrire spunti di riflessione è quello della rilevanza del danno cagionato a chi scopre di aver contratto una malattia quale l’epatite C a causa di trasfusioni e quindi inconsapevolmente ed incolpevolmente. Molto si è discusso, infatti, in dottrina e giurisprudenza della lesione del diritto alla salute, ma poco si è detto circa le sfere di essa colpite. Innegabile che vi sia un danno biologico risarcibile in quanto lesione dell’integrità fisica squisitamente intesa e certificabile attraverso esami clinici atti ad accertare alterazioni anatomo-funzionali in grado di determinare postumi permanenti invalidanti, ma anche la sfera del danno esistenziale andrebbe presa in considerazione. La patologia virale in questione, infatti, anche a non voler considerare l’alta incidenza di mortalità in chi le contragga, è tale da arrecare astenia e sofferenza di una certa intensità e tutta una sintomatologia sicuramente incidente sulla serena conduzione della vita quotidiana, trattandosi, tra l’altro di malattia trasmissibile conseguentemente ed obiettivamente in grado di contribuire ad un peggioramento delle condizioni di vita della persona contagiata, foriera di una irreversibile compromissione della validità psico-fisica del soggetto con conseguente menomazione del suo stato di benessere, della capacità sociale e relazionale, delle consuete attività, non escluse quelle del tempo libero e di svago.

di Antonella Virgilio

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