Omicidio colposo per l’operazione inutile fatta per soldi

antonella

Corte di Cassazione, V Sezione, sentenza n. 33136 del 6 settembre 2011. Condanna per omicidio colposo per chirurgo che interviene senza una reale necessità spinto soltanto da fini di lucro Sala operatoria solo se necessario: stop agli interventi inutili Rischia la condanna per omicidio colposo il chirurgo che interviene senza una reale necessità, mosso soltanto da una logica di guadagno. La Corte di Cassazione con la sentenza 33136/ 2011 analizza il caso di un cardiochirurgo accusato di aver operato avendo come obiettivo principale, non la salute del paziente, ma il superamento dei 600 interventi annui, numero oltre il quale sarebbe scattato un “premio” aggiuntivo di 500 euro ad operazione. L’indagine sul conto del primario era stata avviata dopo le dichiarazioni fatte da un sacerdote al Pubblico Ministero. Al religioso era stata applicata una protesi meccanica in sostituzione della valvola aortica con un intervento invasivo giudicato, in seguito, non necessario da numerosi specialisti, soprattutto in considerazione delle pesanti conseguenze sulla qualità della vita che lo avevano costretto tra l’altro ad una quotidiana terapia anticoaugulante. Tanto era bastato agli inquirenti per cercare nel «curriculum» del cardiochirurgo altri casi analoghi e trovarne almeno otto che avevano indotto il P. M. a procedere alle contestazioni di rito. In sostanza, in tutti i capi d’imputazione riguardanti gli interventi operatori si contestava l’esecuzione senza necessità di interventi al cuore, di sostituzione o di plastica valvolare, di pazienti in cui non ricorrevano presupposti universalmente riconosciuti sulla base dei preliminari accertamenti ed oltretutto gli interventi in questione si palesavano sguarniti di un valido consenso, per non essere stato informato il paziente della reale situazione pre-intervento e delle conseguenze permanenti che lo stesso avrebbe comportato. Quale evento lesivo di tali interventi si contestava l’aver provocato lesioni personali gravi consistite nell’alterazione anatomica, la sternotomia, determinata dall’operazione, nella messa in pericolo della vita della persona offesa e nella diminuzione funzionale dell’organismo; lesioni personali gravissime, essendosi determinata a carico di un paziente, come conseguenza all’intervento una diminuzione funzionale dell’organismo a tempo indeterminato ed insanabile; nonché il delitto di omicidio preterintenzionale in danno di uno dei pazienti sottoposti ad analogo intervento, che ne avrebbe determinato la morte a causa di infarto perioperatorio. Tra le contestazioni non si può sottacere del delitto di falso in atto pubblico, per avere, in concorso con altra persona, non identificata, distrutto una lettera di dimissioni dal ricovero, lettera che avrebbe recato l’evidenziazione degli esami pre –operatori, dimostrativi della non necessità dell’intervento, e formato una seconda lettera di dimissioni, consegnata al paziente, che non conteneva la descrizione di quegli esami, ma soltanto la generica espressione di una diagnosi di “insufficienza valvolare aortica”.
Ad accomunare gli interventi analizzati sarebbe stato il movente economico, ovvero l’esigenza di incassare le somme del «cottimo cardochirurgico», pattuito verbalmente dal professionista con gli amministratori della clinica con la quale aveva un rapporto di lavoro dipendente. L’esistenza di un accordo tra il chirurgo e la casa di cura era stata rivelata dal responsabile delle risorse umane dell’istituto, ritenuto dai giudici di merito un teste qualificato proprio in virtù del suo ruolo. L’integrazione «incriminata» avrebbe fatto lievitare lo stipendio annuo da 325 mila euro fino a 625 mila euro in base agli interventi eseguiti. Compenso allettante, altrimenti non si spiegherebbe la “forzatura” dell’indicazione chirurgica e dunque la decisione di procedere ad interventi non altrimenti giustificabili con specifico riferimento al caso. E’ proprio l’esistenza di quel sistema di compenso che nell’edificazione accusatoria viene considerata alla base delle decisioni di procedere ad interventi non necessari. Decisa la difesa del cardiochirurgo che afferma la sua buonafede e nega la possibilità di giocarsi carriera e credibilità per 4 mila euro, a tanto ammonterebbe, infatti, il compenso per gli otto casi “sospetti”. Non è proprio così in quanto l’imputato lavorava presso una clinica in regime di quello che viene definito cottimo della cardiochirurgia, per cui il medico avrebbe percepito in più una somma annuale di 300.000 euro se nell’anno avesse praticato 600 interventi, inoltre € 500,00 a intervento, qualora gli interventi praticati presso la Cardiochirurgia avessero superato il numero di 600 all’anno. Ecco spiegata la corsa al raggiungimento del numero e alla necessità di varcare quella soglia incrementando il numero di interventi. In vista di quell’obiettivo, il primario avrebbe considerato preminente su ogni altra valutazione, di necessità terapeutica e di generale opportunità per le condizioni del malato, quella di eseguire interventi operatori, del tipo e dell’impegno per il paziente di quelli tipici della cardiochirurgia, mettendo così in atto vere e proprie azioni lesive che avrebbero perso ogni connotazione di intervento a vantaggio della salute delle persone che si erano affidate alle sue cure. Ma c’è dell’altro, la difesa dell’imputato, sia pur zelante e scrupolosa, sembra non tener conto del fatto oggettivamente accertato, dell’avvenuta falsificazione della lettera di dimissioni portante indicazioni che si ponevano in contraddizione con la scelta in concreto effettuata dal prevenuto di operare. Ciò si pone come chiaro elemento indicativo del fatto che l’imputato aveva agito in modo che quel risultato si attuasse, diversamente non si spiegherebbe la soppressione del primo documento e compilazione del secondo, con una modifica alla quale era inequivocabilmente interessato, perché da quel documento sarebbero emersi con evidenza palmare le reali motivazioni dell’intervento non necessario in contraddizione con le premesse, di fronte alle quali qualunque strategia difensiva si sarebbe rilevata debolmente argomentativa ed inadeguata ai fini del suggerimento di una soluzione assolutoria. La Corte di Cassazione dal canto suo accoglie il ricorso del PM e delle Parti Civili contro la sentenza della Corte d’Appello giudicata troppo morbida. I giudici di secondo grado avevano, infatti, dichiarato prescritti i reati di lesioni gravi e gravissime e derubricato il reato di omicidio da preterintenzionale a colposo.
Gli ermellini rinviano la causa a una nuova sezione dell’Appello invitando il collegio a decidere nuovamente sul caso tenendo presente il principio di diritto in base al quale, deve essere considerato penalmente responsabile il chirurgo sia quando opera contro la volontà del paziente sia quando persegue un fine diverso dalla salute «il vero bene da preservare, la cui tutela, per il relativo risalto costituzionale, fornisce copertura costituzionale all’azione del medico». È invece «innocente» il chirurgo che con il suo intervento provoca al paziente le lesioni che l’operazione «naturalisticamente» comporta. Nell’occasione i giudici di legittimità precisano che tutta l’attività medico-chirurgica deve necessariamente essere finalizzata alla cura della salute, quale interesse costituzionalmente tutelato, e che solo in questi casi l’attività del medico, nel caso di lesioni naturalisticamente connesse ad interventi chirurgici, può risultare esclusa dall’area di responsabilità, nei vari settori dell’ordinamento. Quanto all’elemento soggettivo, i Giudici hanno condiviso «il prioritario profilo di colpa» individuato a carico dei sanitari dalla Corte d’Appello per aver violato oltre alle regole di prudenza, anche le disposizioni «dettate dalla scienza e dalla coscienza» di chi abbraccia la professione medica. Resta difficile sostenere la compatibilità di un atteggiamento consapevolmente volto a procurarsi con l’attività di chirurgia un mero utile economico con un coefficiente soggettivo non intenzionale quale è nel nostro ordinamento la colpa.Sicuramente l’elemento psicologico della condotta del primario non può qualificarsi come colpa, atteso che egli avrebbe agito con la piena consapevolezza di provocare ai pazienti tutte le conseguenze fisiche di inutili operazioni ed avrebbe accettato che ciò avvenisse pur di trame un profitto economico. Attraverso una disamina che correttamente prenda in esame tutti gli elementi accertati a carico del medico e li valuti nella loro giusta concatenazione logica, non si può che ravvisare il dolo, risolventesi nella coscienza e volontà dell’evento lesivo conseguente ad un intervento chirurgico eseguito non in funzione della salute del paziente, ma per tornaconto personale, avendo l’imputato – per un interesse economico –“scientemente” operato pazienti, per i quali in quel momento l’intervento chirurgico non era necessario, senza informarli di quelle mutate condizioni per timore di lasciarseli sfuggire. In un’epoca quale quella attuale, dove tutto si fa pur di trarne un profitto, non meraviglia che un medico, la cui attività dovrebbe essere volta alla tutela della salute di chi al medico si affida per ricevere le cure del caso, invece di curare il paziente e solo per intascare del denaro, anziché curare il paziente ne compromette irrimediabilmente la salute o addirittura ne provoca il decesso. Aberrante come al danaro venga conferito un valore maggiore della vita umana. L’accertato interesse economico dell’imputato a incrementare gli interventi operatori, la non necessità degli interventi di cui all’imputazione e l’insufficiente informazione ai pazienti, soprattutto in merito all’esito degli accertamenti preoperatori che non evidenziavano indicazione di intervento chirurgico, non può certo far ritenere che la decisione di intervenire, nonostante le risultanze in senso contrario degli esami interni e senza informazione ai pazienti, sia da far risalire ad un“intento terapeutico”. Barattare per soldi il valore fondamentale, la vita, non rientra nella previsione di alcun protocollo.

di Antonella Virgilio