Il lotto 285 – capitolo cinquantacinque

Era un sogno. Avevo ricevuto l’incarico da un amico di consegnare un plico che conteneva un orologio molto prezioso ad un indirizzo che lui  aveva saputo indicarmi solamente con un vago cenno della mano, vicino al Porto Fluviale. Il luogo era caratterizzato da una sola parola, peraltro strana ed inconsueta: Via Cadillac. Dopo un po’ di difficoltà avevo trovato la zona segnalatami e mi ero accorto che doveva trattarsi di un porto ormai in disuso sulle rive del fiume. C’erano un vecchio ponte di ferro sconnesso, piloni contorti, muri abbattuti, rotaie divelte, strade senza uscita ed un’atmosfera di desolazione che mi aveva fatto pensare, addentrandomici, a qualcosa di sinistro, di irreale. Non avendo un punto di riferimento mi ero guardato attorno e avevo scorto una specie di guardiola a lato della strada. Mi ero avvicinato ma, non avendo visto alcuno all’interno, mi ero inoltrato fra le macerie cercando una  qualche anima viva a cui chiedere indicazioni. La stazione d’imbarco sulla riva e le rotaie che vi passavano accanto mi avevano fatto pensare che avrei dovuto trovare portuali, operai, ancora intenti, benché fossimo in piena guerra, a tenere ancora in vita una struttura così importante. Avevo cominciato a notare alcuni uomini che si aggiravano nei paraggi, vestiti come semplici cittadini, alcuni di loro addirittura in giacca e cravatta, che confabulavano fra loro in piccoli gruppetti. Avevo pensato che fossero degli imprenditori, dei geometri, che erano venuti a valutare il complesso per un riadattamento. Mi ero avvicinato ad uno di loro, dall’aria dimessa, e gli avevo chiesto  dove avrei potuto trovare la fatidica Via Cadillac. Egli, senza neanche starci a pensare, aveva alzato un braccio e mi aveva indicato un oscuro pertugio fra degli edifici fatiscenti. La caratteristica di quegli insediamenti era che sembrava fossero  stati costruiti direttamente dalla roccia, come una sorta di bassorilievi e che quindi non fossero adibiti ad abitazione ma ad ornamento. Intorno alle pareti di quella che sembrava più una cava che un complesso industriale si ergevano delle grandi conformazioni di pietra che rappresentavano corpi e volti, anche se sbalzati senza un vero criterio artistico, dalle più svariate fisionomie e dai più strani atteggiamenti, che si riproducevano, quasi all’infinito, lungo le pareti perpendicolari. Man mano che procedevo i cunicoli, le gallerie, i vicoli ciechi si moltiplicavano, facendo pensare ad un immerso corpo strutturato in maniera squadrata, dove nelle varie sue parti si nascondevano i principali organi di un essere vivente. Infatti le pareti erano di terra rosso sangue, le strade strette, intricate, erano fitte come vene  e pareva che questa immensa città di pietra si muovesse, dilatandosi sempre di più. Ormai mi sentivo perso in questo labirinto quando mi ero ricordato di non essere solo. Infatti mi ero accorto che i capannelli di persone che avevo notato all’ingresso si riproducevano in maniera uniforme man mano che andavo avanti. Erano quasi tutti uomini, dall’aspetto, come ho detto prima, borghese, con vestiti appropriati e quasi eleganti. Si muovevano o in coppia o i gruppi di quattro-cinque, parlottando e facendo gesti come se stessero architettando un piano di lavoro o di altro. Essendomi avvicinato ad un di quei capannelli avevo sentito che parlavano un linguaggio strano, un misto di italiano e di slavo, e che stentavano a pronunciare le parole quasi in loro ci fosse una sorta di reticenza ad esprimersi compiutamente. Sembravano non accorgersi della mia presenza, tanto che avevo rinunciato  a farmi indicare ancora una volta la via. Proseguendo nel mio vago peregrinare ero sbucato finalmente in un luogo all’aperto, privo di vegetazione, erba, siepi o altro, con un suolo che sembrava essere stato cosparso di una terra rossiccia, simile a quella che avevo visto copriva le pareti all’interno.

   Di fronte a me si era intanto dispiegata, come su una mappa di pergamena, visto anche l’artificiosità di quello che avevo finora visto, una landa deserta, in fondo alla quale, nella nebbia, si intravedeva la città. Potevo vedere, sul foglio raggrinzito, solo dei puntini bianchi e delle croci. La città era rappresentata da un’ancora, visto che questa si trovava sul mare. Dovevo essere sceso per un dirupo e essermi avventurato nella grigia pianura. Con mio raccapriccio avevo notato che non c’erano strade, anche se la mappa indicava dei percorsi, ma un’uniforme distesa di teste di morto, intervallata, di tanto in tanto, da tibie incrociate! Un tipico esempio di una fantasia giovanile di tesori e pirati, avevo pensato nel sogno. Avevo allora riavvolto, con le mani tremanti, la mappa incartapecorita, mi ero guardato intorno e avevo visto, come dietro uno schermo, la riproduzione identica di quello che era disegnato sulla carta, dilatato all’infinito. Allora avevo percepito nel sogno, con angoscia, di essere rimasto per sempre intrappolato in un mondo di morti.

   Alla fine mi svegliai e, dopo uno stordimento iniziale non ci misi molto  a rendermi conto che tutto quello era stato solo  un brutto sogno, e che ormai i  miei sogni non presagivano soltanto quello che sarebbe avvenuto ma descrivevano, con una precisione agghiacciante, anche se in modo non perfettamente mimetico, quello che era successo realmente.

   Tornato alla vita di tutti giorni, nei mesi che seguirono potemmo, io e la mia fedele compagna,  anche noi assaporare quel senso di libertà che si era ormai diffuso fra la popolazione. Potevamo uscire di casa senza la paura del coprifuoco o dei bombardamenti, rivedere i nostri genitori ed i compagni di lotta, con i quali avevamo condiviso non solo i rischi, i successi, ma anche le giornate di prigionia, di torture e di lutto che le avevano caratterizzate.

Con lei sono poi ripartito verso le regioni dove avevo operato, per prendere delle cose che avevo lasciato, acquistate durante le mie peripezie, come alcuni libri antichi e sul socialismo. Avevo conservato anche un paracadute che le regalai, con cui lei avrebbe fatto delle camicette e dei vestiti. Tornati nella capitale, ci siamo sposati nell’agosto del 1945 con un matrimonio molto scarno, con solo due testimoni, seguito da una consumazione al bar. Avremmo poi conservato l’abitudine di contare gli anni del nostro matrimonio fin dalla fine della guerra, quasi a voler esorcizzare tutto quello che avevamo passato. Ricordo che lei indossava un corto vestito che aveva confezionato col mio paracadute. Sembrava un palloncino bianco non ancora completamente gonfiato che si alzava ed abbassava da terra ad  ogni  spostamento d’aria. Quel giorno, le colombe avevano fatto una cosa che non avevano mai fatto; erano entrate all’interno della chiesa, e una era venuta a posarsi sulla sua testa velata. Assomigliava alla colomba  che Picasso avrebbe disegnato per il Congresso per la Pace che si sarebbe tenuto a Parigi, cui avremmo partecipato con una folta delegazione di antifascisti del nostro Paese.  

di Maurizio Chiararia

(continua)

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