In ricordo di Mario Francese

Gli anni Settanta sono anni di grande mutamento per la mafia palermitana. Sono gli anni dell’ascesa dei Corleonesi, gli anni in cui Totò Riina ed i suoi fecero fuori più di 200 mafiosi facenti capo al triumvirato Bontade- Badalamenti- Inzerillo per arrivare ai vertici di Cosa Nostra, di cui rimarranno capi indiscussi.
A raccontare per primo la feroce ambizione dei corleonesi fu Mario Francese. Nato nel 1925 a Siracusa, all’epoca Francese era cronista di nera e giornalista d’inchiesta di spicco del Giornale di Sicilia. Francese raccontava di mafia, e lo faceva con l’abilità di chi, osservando, riesce a trovare il filo rosso che tiene legati i fatti, giungendo in questo modo a delineare con chiarezza l’evoluzione mafiosa.
Sono gli anni che in cui in cui sempre più capillari si fanno le infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti, anni in cui l’avanzata della mafia nel campo dell’economia e delle istituzione procede a tutta velocità.
Mario Francese, come i più acuti osservatori del fenomeno mafioso, intuisce che per arrivare al nocciolo del potere dei boss si deve inseguire l’odore dei soldi.
Indaga, dunque, sul fiume di denaro inviato dal governo dopo il terremoto del Belice nel 1968. Soldi stanziati per le province di Trapani, Palermo e Agrigento spesi per grandi opere del tutto inutili mentre la ricostruzione, a distanza di quasi 50 anni, rimane incompiuta.
Ma l’inchiesta più scottante è quella sulla diga Garcia, l’opera interamente finanziata dalla Cassa del Mezzogiorno, su progetto del consorzio di bonifica dell’alto e medio Belice, creata con l’intento di convogliare le acque del serbatoio di Garcia (ricordiamo, in provincia di Palermo) verso Trapani ed Agrigento. Per l’opera, che si sarebbe dovuta compiere nell’arco di un decennio e che invece è stata inaugurata solo nel 2013, secondo quanto riferito al tempo dal Dottor Mirto ( allora Direttore del Consorzio di bonifica dell’alto e medio Belice) la Cassa avrebbe investito circa 140 miliardi di lire, a cui andrebbero sommati i 110 miliardi da impiegare per il convogliamento dell’acqua utile all’irrigazione nei consorzi richiedenti e i circa 70 miliardi per fornire acqua potabile a Trapani.
Mario Francese si pose una domanda molto semplice: perché sfruttare le risorse idriche presenti nel palermitano, territorio già ampiamente sofferente a causa del problema della siccità, per convogliare acqua verso Trapani ed Agrigento? Parlò con i piccoli coltivatori della zona circostante quella che sarebbe stata la futura diga, si fece raccontare i disagi, gli espedienti per sopperire alla mancanza d’acqua.
In suo celebre articolo scriveva: “ Il retroterra di Palermo, noto per le sue incommensurabili risorse idriche, si appresta a specchiarsi nel grande lago della diga Garcia e ad indispettirsi per il grosso furto delle sue inesauribili fonti idriche che verranno convogliate nel serbatoio di Garcia per finire, poi nel trapanese e nell’agrigentino. E mentre i paesi sottostanti come Corleone, Campofiorito e Bisacquino soffrono l’arsura (terreni e cittadini) la loro acqua emigra quasi beffandoli verso altre zone.”
La risposta alle proprie domande la trovò grazie a quella capacità di rimettere insieme i pezzi di una stessa storia criminale alla quale stava assistendo. “ Eccoci quindi all’ipotesi del gran deserto della mafia che, anche dalle zolle una volta aride, ha saputo cavarci oro”, scriveva. Il sequestro Corleo, la sequenza di morti ammazzati sotto i colpi di lupara o di calibro 38, l’omicidio del colonnello Russo a Ficuzza ( da poco divenuto consulente dell’azienda Saiseb di Roma, in lizza per l’appalto della diga) non sono semplici fatti di sangue. Sono il segnale che, nella corsa agli appalti per le opere di realizzazione della diga, sono stati rotti degli equilibri. È in questo contesto che Mario Francese scopre che, dietro alla misteriosa società Risa, si nasconde il boss in ascesa, Totò Riina, invischiato nella gestione dei subappalti relativi alla medesima opera.
Nel Settembre del 1977, l’inchiesta esce in 6 puntate sul Giornale di Sicilia.
Il 26 Gennaio del 1979, mentre sta lavorando alla pubblicazione di un dossier su mafia e appalti, Mario Francese viene freddato a colpi di pistola davanti al portone di casa. Il figlio Giulio, allora collaboratore del quotidiano Diario, sarà tra i primi a giungere sul luogo del delitto. Una segnalazione arrivata in redazione lo aveva avvisato di un morto in Via Campania. Fu Boris Giuliano , all’epoca Capo della Mobile, a fermarlo di fronte a quel lenzuolo bianco, perché Giulio non vedesse che quel morto era proprio suo padre.
La matrice mafiosa dell’omicidio, come sempre accade in questi casi, sarebbe stata riconosciuta solo nell’Aprile del 2001. Per l’omicidio di Francese verranno condannati Totò Riina, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella ( esecutore materiale del delitto).
Niente di meglio per dire chi fosse Mario Francese, delle parole scritte dai giudici nella sentenza di I grado:
“Una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa Nostra”.

Di Martina Annibaldi