“L’autore e il suo doppio”, Fabrizio Gifuni e la letteratura visibile

È un percorso di ritorno alla vita, alla carnalità della vita che passa attraverso la centralità del corpo quello messo in atto da Fabrizio Gifuni con il suo “L’autore e il suo doppio”, andato in scena dal 2 al 12 Marzo al Teatro Vascello di Roma. Quattro spettacoli, “Lo Straniero” di Albert Camus, “ Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini, “Il Dio di Roserio” di Giovanni Testori” e “Un certo Julio” omaggio a Julio Cortázar e Roberto Bolaño che ben si collocano all’interno del
percorso artistico che Gifuni porta avanti ormai da qualche anno. Un approccio al teatro che passa innanzitutto attraverso uno studio certosino dei testi. Testi che non sono mai pensati dai loro autori per essere messi in scena. È in questo senso che Gifuni diventa il doppio degli scrittori e dei poeti che maneggia, riuscendo a trasformare la carta in carne, la pura letterarietà in vita, in un percorso che potrebbe definirsi circolare. La vita che dona all’autore lo spazio necessario alla letterarietà e la letteratura che restituisce sé stessa alla vita, attraverso il corpo che se ne fa interprete.
Che il corpo sia immobile, come nell’interpretazione de “Lo Straniero” o in movimento, come in “Ragazzi di vita”, estreme ed antitetiche sintesi di quella visione corporea della letteratura e del teatro al centro kermesse andata in scena al Teatro Vascello.

Lo Straniero

È un non entrare sul palcoscenico la camminata meditata di Gifuni in assenza alla sua presenza. Gesti di profonda meditazione sul respiro della vita,i passi che attraversano lo spazio dalle quinte al microfono prima ancora dell’applauso esplosivo del pubblico del Vascello. Fabrizio non è Fabrizio, è uno sguardo lontano, indifferente alla sua esistenza: è Mersault. Un Mersault, il protagonista, come neanche può esserlo il protagonista stesso. La luce accecante sugli occhi, così fastidiosa che il fastidio, Gifuni l’étranger, lo trasmette a noi, ma in modo così indifferente che ci sentiamo parte di quel fastidio così vero che la messa in scene viene assorbita dalla sincerità di essere l’essenza di qualcosa che ci appartiene.
L’uomo di Camus cerca giustificazione all’esistenza ma non la trova, mentre Gifuni non cerca la giustificazione alla esistenza, lui è l’esistenza senza giustificazione dove tutto è così privo di senso da avere il senso di non avere senso: straniero a sé stesso per essere sé stesso. Uccide un Uomo “a causa del sole” così dice ai giurati Mersault e si lascia condannare a morte. Così Gifuni “a causa della luce accecante” ci fa affrontare il destino che è assurdo e irrazionale, ma ineluttabile, da non poter staccare gli occhi da lui, da quella luce che è quasi morbosa.
Essenziale la sua mimica, quasi assente, nella sua presenza oltre ogni confine, oltre ogni confine nel disegnare il teorema dell’assurdo e la resa dell’assurdo, la consapevolezza che non c’è una via d’uscita all’assurdità della vita “mi aprivo alla dolce indifferenza del mondo e in ogni caso, tutte le scelte porteranno allo stesso assurdo destino”.

Ragazzi di vita

Appena quattro mesi fa Massimo Popolizio portava in scena al Teatro Argentina di Roma il primo romanzo di Pier Paolo Pasolini. Un lavoro magistrale, corale. Sono diciannove gli attori a calcare il palcoscenico. Nel suo “Ragazzi di vita”, Fabrizio Gifuni riesce, solo, nella medesima impresa. Ricetto, Caciotta, Begalone e ancora Genesio, Borgo Antico, Piattoletta sono tutti sul palco del Teatro Vascello, con la loro arcaica vitalità, i loro gesti estremi, spesso violenti, puri. Stralci di una vita ancora vergine, non inquinata. Le loro storie vengono sapientemente intervallate da letture tratte dagli Scritti Corsari e dalle Lettere Luterane. Gifuni conosce bene Pasolini, da ‘Na specie de cadavere lunghissimo ha saputo rendersi interprete della sua profetica visione della nostra società, costruita su una dittatura dell’omologazione. La scelta, anche qui, di accompagnare l’interpretazione dei pischelli del sottoproletariato romano del dopoguerra a frammenti del Pasolini più critico e più provvidenziale ne è la riprova. Quella di Gifuni non è solo l’ottima interpretazione di un attore di squisito talento, né gli spetta il solo merito di esser riuscito e rendere visibile la letteratura. Con “Ragazzi di vita” Gifuni fa di più: ci pone davanti ad un mutamento storico di cui tutti, padri e figli, facciamo parte in maniera più o meno consapevole. Facendosi corpo di ciò che furono i giovani di ieri e di ciò che sono diventati i giovani di oggi.

Di Martina Annibaldi e Claudio Caldarelli