Le mosse cinesi in Africa, tra accuse e opportunità
Quasi tutti i leader africani, cinquanta per l’esattezza, si sono riuniti a Pechino accolti dal presidente cinese Xi Jinping. Il mega-evento era l’occasione per rilanciare la cooperazione economica che negli ultimi anni ha reso la Cina il principale partner economico del continente. Xi ha promesso ulteriori 60 miliardi di dollari di investimenti, di cui 15 di prestiti a interessi zero, 20 miliardi come linee di credito per le imprese, 10 per fondi allo sviluppo, 5 miliardi per favorire le importazioni e i restanti per incentivare le imprese private cinesi ad investire in Africa.
Il dinamismo cinese nel continente più povero del mondo non è una novità. È piuttosto un fenomeno storico di vasta portata, forse ancora ampiamente sottovalutato e il cui significato è ancora poco chiaro. La relazione economica e politica, iniziata già nell’era maoista, durante gli anni 90 ha subito una importante accelerata, con il commercio tra Africa e Cina che aumentò del 700%. Grandi cifre che diventano infrastrutture: porti, strade, reti telefoniche e reti ferroviarie, come quella, maestosa, che collega la capitale dello stato etiope Addis Abeba col porto di Doralé in Gibuti. Mentre i progetti d’investimento coinvolgono tutto il continente nella sua interezza, l’Africa orientale è strategica nella cosiddetta Iniziativa Belt and Road (BRI). Una via della seta moderna, anzi sarebbe meglio dire più vie della seta, che connettono Asia, Europa e Africa. Un grande piano strategico e di marketing dal costo complessivo di mille miliardi di dollari, che hanno il fine di migliorare i collegamenti tra la Cina e i paesi toccati dal progetto.
Proprio la BRI ha suscitato molte polemiche nei confronti della Cina, accusata di adottare una politica ‘neocolonialista’. Secondo alcuni analisti il progetto renderebbe i paesi partner, soprattutto i più poveri, troppo dipendenti dal gigante asiatico. Recentemente il primo ministro malese ha respinto progetti finanziati dalla Cina per l’ammontare complessivo di 20 miliardi di dollari, per paura di rimanere intrappolato in una spirale negativa di indebitamento. Con le stesse motivazioni vengono criticati gli ingenti investimenti in Africa. D’altronde, il vero scopo che muove la Cina nei rapporti con l’Africa non è celato. La Cina è un colosso industriale ma con bassa disponibilità di materie prime. Per questo il primo obiettivo è quello di assicurarsi risorse energetiche, ma lo fa attraverso il soft power. Infatti con i paesi africani oltre ai legami economici sono aumentati anche i legami culturali. I progetti finanziati dalla Cina sono, generalmente, di tipo non speculativo ma volti ad investimenti pazienti. Il mantra, che piaccia o no, è quello della non interferenza nella politica interna degli stati partner. Business e politica devono restare separati.
Per quanto si possa biasimare il Partito Comunista Cinese per gli scarsi livelli di democrazia con il quale governa la Cina, le critiche di neocolonialismo mosse dall’occidente, come per esempio dagli Stati Uniti, sia da parte di Hillary Clinton che dell’ex Segretario di Stato di Trump, potrebbero suonare grottesche. I paesi occidentali hanno abitualmente sostenuto regimi autoritari come l’Arabia Saudita. Hanno imposto i loro diktat ai paesi più piccoli e non di rado in maniera davvero imperialista, attraverso l’uso della forza.
Da una parte Trump sembra non dar peso ai paesi africani, che anzi ha definito “paesi di m.”. Il resto dell’occidente, invece, non può far altro che inseguire le mosse cinesi. Lo dimostra la recente visita della May in Africa, dove vorrebbe aprire e rafforzare un fronte commerciale alternativo in vista della Brexit. Senza però sperare di intaccare il vantaggio cinese.
di Pierfrancesco Zinilli