Il lotto 285 – capitolo ventisei

“Strano che la vera e propria origine della crudeltà sia la voluttà.”

Novalis

Dopo qualche minuto nel quale cercavo di orientarmi mi venne in mente di esplorare i muri intorno alla cella. Notai che avevano un aspetto circolare, come se si trattasse di un pozzo o di un condotto che avrebbe portato a una fogna o a qualcosa del genere. Non c’erano quindi angoli che mi avrebbero fatto orientare nell’esplorazione. Solo un buio totale che mi faceva  perdere ogni  possibilità di orientamento. Mi spostai quindi verso quello che sembrava il centro della prigione e notai, con mio grande raccapriccio, che era formato da un buco profondo, anch’esso circolare, la cui profondità non riuscivo a cogliere senza una qualche fonte di illuminazione, ma, gettando una voce all’interno, potei scoprire che l’eco rimbalzava con una frequenza molto lenta, tanto da farmi pensare che il cunicolo fosse profondo e si stringesse verso la fine. Mi ricordava l’ultimo rifugio dove ero stato, ma questa volta la reclusione non era volontaria.

   Non so chi o che cosa mi avesse fatto escludere dalla mia esplorazione una rientranza nel muro dove notai, poggiata in quel canto, una scala a pioli alta fino al soffitto. Pensai che fosse stata messa lì non certo per arrampicarsi sul muro, sapendo che la cella non aveva uscite neanche dall’alto, ma per calarsi (o salire) nel buco che mi sembrava avesse una dimensione e un’altezza che lo avrebbero consentito. Presi quindi l’attrezzo e con grande fatica e lo infilai nel pozzo, facendo attenzione a che non mi sfuggisse di mano, altrimenti avrei perso l’unica che pensavo essere una possibile via di fuga. La scala toccò il fondo mentre io ancora tenevo l’ultimo piolo. Seppi così, a occhio, la profondità del cunicolo che era ragguardevole e finiva con una pozza d’acqua (così mi sembrò) ove galleggiava qualcosa di duro e marcio. Stavo per avventurarmi in quella difficile discesa quando, aguzzando l’orecchio, udii dei passi che scendevano le scale e si avvicinavano alla porta della cella. Una luce smorta si accese nel corridoio. Ritirai la scala e la riposi nel punto  esatto dove l’avevo trovata per non dare adito a sospetti su un mio possibile tentativo di fuga. Mi rincantucciai quindi sotto la brandina aspettando, con trepidazione, l’ingresso di qualche carceriere o di qualche militare della guardia che avesse saputo della mia presenza in quel luogo detentivo.

   La grata si aprì cigolando e vidi apparire, stagliata come un’ombra sull’ingresso, la figura di un uomo con una divisa slacciata e in disordine, alto, robusto, con una lunga barba nera con riflessi bluastri che gli ricadeva sul petto villoso. Aveva occhi penetranti e fondi come quelli di un animale e un volto che si atteggiava a nemico, pericoloso, blasfemo, dissoluto, che sembrava evocare il diavolo. Dietro di lui veniva la giovane donna che mi aveva incarcerato, anch’essa in divisa, ma indossando  solo i pantaloni a sbuffo e gli stivali. Per il resto portava solo una camicia sbottonata sul seno che la faceva sembrate più una volgare adescatrice che un militare.

   “Si stagliava sul fondo scuro come un’apparizione angelica; sembrava rilucere di se stessa, emanare la poca luce che aveva alle spalle più che riceverla. Era alta, con un corpo ed un portamento da dea; i suoi capelli, di un biondo chiaro, si separavano in mezzo alla testa e scendevano lungo le tempie come due fiumi d’oro; sembrava una regina col diadema; la sua fronte, di un candore azzurrino e trasparente, si stendeva larga e serena sulle arcate di due sopracciglia quasi brune, singolarità che aggiungeva risalto al colore verde degli occhi, di una vivacità e di una luminosità abbagliante.”

   “Nel suo rosso sorriso (aveva del belletto sulle labbra, cosa insolita per una carceriera), i denti splendevano come perle, e ad ogni movimento della bocca due fossette si disegnavano sul rosa satinato delle sue gote.”

   Mi stesi a terra, intuendo un pericolo imminente vedendo quelle due figure non certo rassicuranti, ma, tastando il terreno, avvertii il  freddo metallo del’impugnatura di un’arma, una pistola a tamburo, con sei alloggiamenti vuoti, e perciò priva di proiettili. Mi venne subito in mente che poteva essere lo strumento per un gioco perverso, sadico.

   La donna intanto si avvicinava a me mentre l’uomo si poneva in disparte, calmo, quasi in attesa della tragedia che si sarebbe consumata tra poco sotto i suoi occhi. Non mi aspettavo niente di buono da quell’ incedere lento  di quella figura femminile ma poi, con mia grande meraviglia, quella cominciò a spogliarsi e rimase nuda, coprendosi pudicamente il seno e il ventre con le mani. Subito presi una coperta e gliela gettai addosso nel tentativo di scaldarla, dato che la cella era umida e fredda come una cantina, ma anche per distrarre lo sguardo da quella nudità abbagliante che mi si presentava dinanzi. Ella però distese gli indumenti e la coperta sul pavimento, e giacque lì immobile come aspettando una mia mossa.

Mi gettai allora  sopra quel corpo ma mi sentivo mancare le forze, tale era la spossatezza che ancora percepivo.

   Non avevo la forza, benché il desiderio fosse intenso, di violare il suo sesso in quel modo improvviso, anche se spinto da quel suo abbandono così repentino, tanto da farmi sospettare che mi stesse usando per altri fini o che qualcun altro volesse assistere a quella seduzione e ne godesse, ma poi la libidine vinse sui miei dubbi e iniziai a penetrarla.

   Lei non diceva una parola, solo il suo respiro era un po’ accelerato e i suoi occhi chiusi. La sua bocca era semiaperta ma aveva i denti stretti, come stesse avvertendo  una inaspettata minaccia. Allora mi spinsi decisamente dentro di lei, facendo entrare di un poco il mio sesso nella fessura appena dischiusa, ma avvertii subito la morbida resistenza dell’imene. Era vergine. Fermai il mio assalto. Ella allora aprì gli occhi, ebbe un fremito di stizza, poi mi fissò con uno sguardo incoraggiante, ma il mio sesso si rifiutò di proseguire nella spinta, cosi lo ritrassi sentendo a poco a poco svanire il desiderio. Mi feci cadere su un fianco, ormai impotente. Lei chiuse le gambe con un sospiro di delusione, si alzò di scatto, si riavvolse nella coperta e fece per andarsene quando si voltò e con le labbra contratte mi disse, in un tedesco sibilante, queste sprezzanti parole: “Du bist kein Mann!”

   Sarebbe stato un marchio indelebile che avrei portato con me per tutta la vita se non avessi saputo che si trattava di un sogno.

   Poi lei, ad un cenno dell’uomo che era rimasto impassibile, ma anche soddisfatto davanti a quel tentativo di violenza repressa, raccattò la pistola che giaceva per terra, la impugnò, introdusse un unico proiettile nell’alloggiamento, girò il tamburo finché si fermò e sparò il primo colpo su di me che andò a vuoto.

Poi fece girare ancora il tamburo e mi porse il revolver dalla parte del calcio. Presago del gioco che, mio malgrado, stava cominciando, mi puntai la canna alla tempia. Il secondo colpo andò a vuoto. Mi venne allora ingiunto di far ruotare ancora il tamburo con le mie mani, mossa ancora più sadica della precedente, e di esplodere il colpo. Il terzo colpo andò a vuoto. E così fu per altre due volte.

   Mi sentii quasi fuori pericolo quando lei  riprese la pistola che avevo lasciato a terra, la puntò verso di me e sparò. La pistola esplose l’ultimo colpo rimasto. Il colpo andò a segno, trapassandomi la gola. Poi lei, l’aguzzina, trascinò il mio corpo ormai inerte verso l’orlo del precipizio e lo spinse con forza nel pozzo.

   Avvertii per un attimo ancora l’ultimo spasimo di vita, poi venni inghiottito dal gorgo senza fine della morte.

   Mi svegliai di soprassalto, con la fronte imperlata di sudore, gli occhi spalancati, le mani tremanti, tanto che mi ci volle un po’ per capire che mi trovavo nel mio letto di casa, solo, ancora vestito con i panni della giornata precedente, in uno stato di semi-incoscienza che male si addiceva alla mia persona sempre razionale e presente a se stessa.

La stanza era gelida, così tentai di scaldarmi rimettendomi sotto le coperte, con sopra un pesante cappotto che avevo trovato nell’armadio.

   Così, assorto interamente nel pensiero della mia vera compagna, scacciai ben presto dalla mente quel torbido sogno e fortunatamente riacquistai la cognizione di dove fossi e di quale fosse la mia missione.

di Maurizio Chiararia

(continua)

 

 

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