“Portace n’antro litro”

A Roma le osterie sono per numero seconde solo alle chiese. I romani non rinuncerebbero mai al venticello del ponentino che rinfresca le calde sere estive. Non rinuncerebbero ai vetturini, sulle loro pittoresche “botticelle” trainate da docili cavalli. Non rinuncerebbero alla lupa simbolo delle origini di Roma. Tanto meno rinuncerebbero alle osterie. 

Già… le osterie, quei locali che per tradizione erano i salotti popolari. Erano il posto dove i bulli del rione tenevano i loro incontri. Tra un bicchiere e uno stornello una prepotenza c’era sempre. Er più, era il capo di questi personaggi spacconi e provocatori. Bulli che anche il cinema ha usato come soggetti per le pellicole.

Le osterie che vendevano il vino al minuto, dove quando si entrava oltre all’odore degli ubriaconi c’era l’odore dei sigari mischiato a quello di sudicio e di sudore di frequentatori poco inclini alla pulizia. Qui oltre a bere si giocava a carte e a dadi. Quasi sempre personaggi alticci che il gomito lo avevano alzato fin troppo venivano alle mani. Azzuffate per questioni di gioco, per questioni di soldi o per belle popolane. Risse che spesso, finivano nel più tragico gioco, quello dei coltelli. E allora il più veloce di mano, il più svelto di coltello, saliva in cattedra e incitato anche dagli avventori, poteva trasformare una semplice scazzottata in omicidio.

Un bel gran da fare per gli sbirri pontifici. Nella Roma papalina non si contano gli arresti per risse ed omicidi dovuti a un bicchiere di troppo. Ma questo era il popolo. Le guardie facevano il loro mestiere ma non bastava. Bisognava porre un freno. Si pensò anche di far chiudere le osterie limitatamente agli orari delle funzioni religiose più importanti. Ma non bastava. Non si riusciva a frenare il fenomeno sintomo anche della situazione di miseria che il popolo di Roma attraversava in quel periodo.

Una curiosa “cassetta postale” in marmo, situata ancora oggi, in piazza delle Coppelle riportava inciso“Qui devono mettere i biglietti tutti gli osti, albergatori, locandieri ed altri, per dare notizia de forestieri che si infermano nelle loro case, alla venerabile Confraternita della Divina Provvidenza con autorità Apostolica eretta a tenore dell’ultimo editto dell’eminente Vicario. Emandato il XVII dicembre MCDCCXLIX”. Era solo un sistema che la polizia pontificia usava per favorire la sorveglianza. La “cassetta” fu chiamata la buca dello spione. Era il 1750. Nemmeno le ordinanze pontificie più dure riuscivano ad aver ragione dei violenti. I bulli di rione erano sempre più temuti. Ma non tutte le osterie erano così. Quelle fuori porta venivano frequentate da intere famiglie, nelle caratteristiche gite. Venivano più bonariamente chiamate “fraschette”. Si portava il proprio pranzo e si beveva il fiasco di vino che lì si comprava. Molte sono ricordate nei testi di famosi scrittori, che di questa Roma, di questa sfumatura della città, apprezzavano la schiettezza popolare.

“Oste, un bicchiere de frascatano … portacene n’antro”. Intanto i menestrelli suonavano i mandolini, cantavano, “Portace n’antro litro che noi se lo bevemo e poi arisponnemo embè, embè che cè”.  Stornelli romani, rime che spesso raccontavano di vicende popolane. Così le mura grigie dell’osteria si trasformavano in un palcoscenico canoro. Si cantava e si beveva. “… e quanno er vino embè ci arriva ar gozzo embè der gargarozzo embè ce fa n’ficozzo embè. Pe falla corta, pe falla breve, chiamamo l’oste e portace da beve”.

 di Fabio Scatolini

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