Lotto 285 – Capitolo trentaquattro

La veglia è un altro sogno
che sogna di non sognare
(Jorge Louis Borges)

   Non sembrava un luogo di detenzione, anzi appariva (quale in effetti era) come una borghese abitazione appena entro le mura della capitale. Una strada in leggera salita conduceva ad un palazzo di quattro piani, costruito in un essenziale stile modernista che era in voga in quegli anni, con un ampio cortile alla sua destra protetto da alti muri e da una rete che toccava quasi i fili della luce. Il cortile aveva un cancello di ferro battuto coperto da pesanti lamine  anch’esse di metallo, saldate, per impedire la visuale da entrambe i lati. Il portone era di legno massiccio, che richiedeva una forza notevole per aprirsi, e dava su una prima rampa di scale che conducevano ad un ampio appartamento con una guardiola all’ingresso, un atrio e due ampi saloni, le finestre dei quali davano una sulla strada, una sul cortile. Era provvisto di bagni e di altri servizi. Nessuno sapeva quante e quali persone fossero ospitate in quell’”albergo” ma si diceva che vi erano detenuti diversi antifascisti catturati dalla Gestapo, che aveva adibito a suo Comando Generale quel luogo.

   Si era alla fine di gennaio e gli alleati erano appena sbarcati in forze sul litorale e cominciavano ad avanzare verso la capitale, ma, essendo stati fatti segno da un intenso fuoco di artiglieria da parte del nemico, erano stati costretti a temporeggiare attestandosi lungo la linea costiera, ma il tempo inclemente e le continue piogge avevano impedito anche alle truppe nemiche di avanzare. Alcuni battaglioni della RSI, accorsi a dare manforte all’esercito germanico, erano rimasti impantanati e, per i mesi invernali  erano dovuti rimanere appostati dietro le trincee senza avere la possibilità di partecipare alla battaglia che si prospettava aspra e difficile per entrambe gli schieramenti.

   Alcune delle nostre forze di resistenza si erano posizionate sui colli vicini e tentavano, anche se inferiori di numero, di compiere azioni di guerriglia sabotando i convogli nemici che sopraggiungevano, sempre più numerosi, per raggiungere il fronte ed ingaggiando una lotta senza quartiere con i reparti nemici e con i due battaglioni italiani appartenenti alla milizia della autoproclamatasi Repubblica Sociale, scesi dal nord.

   In città il nostro compito di gappisti era quello di impedire che l’esercito occupante potesse continuare a spadroneggiare in interi quartieri e luoghi strategici come caserme, stazioni, prigioni, per organizzarsi in vista dell’attacco finale alleato che non doveva tardare a verificarsi.

   Uno dei nostri obbiettivi, che avevamo pensato potesse essere determinante, era quello di assaltare il Comando della Gestapo che avevamo individuato già da tempo. Subito ci rendemmo conto che era un’impresa temeraria e quasi impossibile da realizzare, visto che l’obbiettivo consentiva agli occupanti, in poco spazio, una difesa facile e per gli assaltatori il rischio di essere subito individuati e fatti prigionieri. Eravamo tre gruppi di quattro persone ciascuno, praticamente quasi tutte le forze disponibili nella zona in cui operavamo. Io e la mia compagna fummo incaricati di fare i primi sopralluoghi. Dal nostro rifugio, che distava dalla prigione poco più di un chilometro, uscivamo la mattina e percorrevamo in linea retta uno stradone che, superato un incrocio, ci portava a poche centinaia di metri dalla salita che conduceva al nostro obbiettivo. Più volte facemmo quel percorso, contando i passi e cercando di individuare nel contempo le vie di fuga che, essendo le strade larghe e piene di traverse, potevano essere facilmente utilizzabili.

   In cima alla salita, sulla destra, spiccava il palazzo di cui avevamo ispezionato in maniera guardinga le sue parti esterne, l’ingresso che all’aprirsi del portone, potevamo intravedere e soprattutto i palazzi di dietro e di fronte. Quello che stava sul lato opposto della via era una vecchio palazzo umbertino, come quasi tutte le case del quartiere. Era alto diversi piani e faceva parte di una massiccia costruzione che, senza soluzione di continuità, si affacciava sulla salita. Era perciò difficile districarsi tra quella serie di edifici insormontabili. Avevamo però individuato un portone, proprio di fronte alla caserma, dal quale, attraverso i vetri che lo ornavano, si poteva scorgere un ampio cortile e poi, connesso da una scala in discesa, un vasto giardino che portava ad un altro portone che evidentemente dava accesso all’atrio del palazzo di fronte. Aggirando il complesso edilizio ci trovammo così sul retro, il cui ingresso dava su un altro stradone con un viavai di tram e di filobus, affollato tanto da poterci consentire, eventualmente, di confonderci tra la gente o salire sui mezzi pubblici e disperderci per la città. Dicemmo così ai nostri compagni del secondo gruppo di ispezionare dall’interno il cortile e il giardino e di tracciare con precisione una prima possibile via di fuga.

   Sul retro la palazzina del Comando della Gestapo si affacciava su una magnifica villa del ‘700, adibita a delegazione ecclesiastica in Terra Santa, sulle cui ali spiccavano istoriazioni di pregio, con un porticato che si apriva su un bellissimo chiostro ricco di vialetti, di piante ed aiuole di fiori,  con in mezzo una fontana circolare zampillante, contornata da busti e statue di epoca antica. Nelle sale interne erano custodite le opere di un gruppo di artisti tedeschi, detti i Nazareni, che avevano operato nel convento il secolo prima. Nulla faceva pensare che accanto a questo luogo sacro e artisticamente rilevante ci fosse un luogo di detenzione così famigerato, con prigionieri che venivano torturati, alcuni dei quali morivano sotto le mani dei loro aguzzini pur di non rivelare nomi e luoghi dei loro compagni. Era quindi nostro dovere di patrioti oltre che di combattenti fare in modo di liberare quei perseguitati e di porre fine alle loro sofferenze. C’era bisogno di un attacco concentrico da tutti i lati possibili. Un terzo gruppo di compagni quindi si sarebbe dovuto introdurre nella storica villa, anche se, constatammo, era protetta da una cancellata munita sulla sommità di punte acuminate. Il gruppo doveva quindi inventarsi qualche stratagemma per introdursi in quel luogo di detenzione o almeno aprire qualche varco per consentire ai prigionieri di fuggire.

   Sapevamo che all’interno, al primo piano, c’era una sorta di segreteria nella quale lavoravano tre impiegate italiane, non avevamo idea se costrette anch’esse a quella mansione come internate o fossero libere di uscire dopo l’orario di lavoro. Attendemmo quindi, appostandoci dietro i vetri del portone di fronte, che qualcuna di loro potesse uscire libera e quindi poter verificare se anch’essa fosse collusa o meno con le guardie della prigione. La mia compagna un giorno si arrischiò di seguirne una all’uscita e, dopo che si era allontanata, fermarla e chiederle un’informazione. Quella si dimostrò in un primo momento sorpresa ma, subito dopo, assunse un atteggiamento palesemente sospettoso. Così, con una certa scaltrezza, la mia giovane amica le parlò in tedesco, lingua che conosceva perfettamente, chiedendole se conoscesse un ufficiale, il cui nome avevamo appreso da un informatore, per poterlo incontrare, visto che le sembrava fosse un lontano parente proveniente dall’Alsazia e che si era arruolato nella Waffen SS in quel paese già occupato dall’esercito nemico. Ma la cosa non andò a buon fine perché la donna, dopo aver farfugliato, scuotendo la testa, qualche parola di diniego, con un accento che ci era sembrato di origine slava, si allontanò veloce lungo la discesa e sparì ben presto alla nostra vista. Ci trovammo quindi, il nostro e gli altri due gruppi, nell’impossibilità di accedere a quel carcere se non con l’uso delle armi.

   La guerriglia urbana, che sia giustificabile o no, nasce dalla constatazione che le circostanze richiedono un intervento offensivo laddove il nemico è sovrabbondante di numero e di mezzi, abbia già compiuto atti violenti, basti la semplice occupazione del territorio, agisca per primo e limiti così la capacità di azione del guerrigliero.

In base a queste considerazioni non ci rimaneva che effettuare un attacco frontale sfondando l’ingresso della prigione e lanciando bombe a mano per cogliere di sorpresa i militari, ma così ci saremmo esposti al fuoco incrociato delle sentinelle e avremmo inevitabilmente subito delle perdite senza raggiungere alcun obbiettivo se non quello di eliminare qualche guardia, e senza consentire di fuggire ai prigionieri raccolti nelle stanze nei vari piani.

   Avevamo individuato le vie di fuga ma non quella di accesso all’edificio, protetto da quel maledetto portone in legno massiccio che richiedeva tra l’altro una forza notevole per aprirsi.

(continua)

di Maurizio Chiararia

 

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