Carola Rackete la capitana che tiene testa al “capitano”

Carola Rackete è la capitana della Sea Watch che in questi giorni è stata oggetto di discussioni, minacce di inchieste e incarcerazioni.

Ha osato tenere testa al Ministro degli Interni Matteo Salvini, detto enfaticamente e arbitrariamente “capitano”, cioè a colui il quale con il decreto “Sicurezza bis” ha rafforzato l’ipotesi di reato per chi tende una mano alle persone, agli esseri umani che rischiano la vita in mare o nei loro paesi di origine.

Carola è una donna coraggiosa e giovane che non teme di sfidare le leggi quando ritiene che le leggi siano ingiuste e inumane. Ricordiamoci che anche le leggi razziali del 1938 furono leggi a tutti gli effetti rivolte prevalentemente contro le persone di religione ebraica.

La capitana è una donna di trentuno anni che si è laureata giovanissima in Scienze Nautiche, ha preso un master all’Università inglese di Edge Hill, è diventata secondo ufficiale su alcune navi che si occupano di temi ambientali per approdare nel 2016 al comando della Sea Watch. Parla ben cinque lingue tedesco, inglese, francese, spagnolo e russo. Insolito che una giovane con queste credenziali percorra i mari per fare “la trafficante di uomini”. Altro è il sentimento che la sprona ad aiutare gli ultimi correndo a sua volta rischi enormi.

Stavolta ha avuto l’ardire di sfidare un uomo forte con i deboli e debole con i forti se solo si pensa al “corteggiamento” verso Donald Trump che è il nemico numero uno dell’Europa e quindi anche dell’Italia. Insomma una capitana contro un “capitano”, un duello tra torto e ragione lì dove persino nel torto si può avere ragione.

Carola Rackete di coraggio, morale e fisico, ne ha da vendere: violando le acque territoriali italiane già sapeva a cosa sarebbe andata incontro ma dopo diciassette giorni di snervante attesa sotto il controllo delle motovedette della Guardia di Finanza, con 42 migranti a bordo salvati al largo della Libia, ha ordinato all’equipaggio di levare l’ancora e di entrare comunque in porto a Lampedusa. In fase di attracco si è sfiorata la collisione con una delle motovedette della Finanza che si era avvicinata alla banchina per impedire la manovra.

Ebbene la donna è stata arrestata per la violazione dell’articolo 1100 del codice della navigazione. Il testo della norma dice: «Il comandante o l’ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni». Ma la capitana è davvero in torto?

Nel dettaglio, secondo le accuse,Carola Rackete avrebbe resistito a una manovra di disturbo di una motovedetta della Finanza e, nelle operazioni di attracco al molo, avrebbe rischiato di “schiacciare” quest’ultima nave contro la banchina, provocando così un naufragio. Ma proprio su questo punto l’ex comandante della Guardia CostieraGregorio De Falco, sostiene che «una nave militare ha dei segni specifici ed è comandata da un ufficiale di Marina, cosa che non è il personale della Guardia di Finanza». La Convenzione dell’Onu sul diritto del mare stabilisce che per nave da guerra si intende «una nave che appartenga alle Forze Armate di uno Stato, che porti i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità e sia posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato».

Presumibilmente, la comandante si è trovata di fronte a una scelta molto difficile: violare una norma italiana oppure venir meno agli obblighi stabiliti dai trattati internazionali. Secondo quanto scritto dall’Onu nella lettera inviata all’Italia sul decreto “Sicurezza bis”, il diritto alla vita e il principio di non respingimento, che sono stabiliti dai trattati internazionali, prevalgono sulla legislazione nazionale. Le Nazioni Unite ritengono che l’approccio del decreto “Sicurezza bis” sia fuorviante e non in linea con il rispetto dei diritti umani previsto dai trattati internazionali.

Intanto 42 esseri umani sono stati costretti a indicibili sofferenze per 17 giorni su una barca a poche centinaia di metri dall’approdo e una donna che capitanava quella nave, nel momento dell’arresto, ha dovuto ascoltare gli insulti vergognosi di chi le augurava di essere “stuprata dai negri”…

Voci colme di una rabbia feroce che alimenta violenza su violenza.

Questo è stato forse l’epilogo più atroce in assoluto. Carola Rackete ha subito e continua a subire una lapidazione vergognosa da parte di chi crede ciecamente nei propri leader sfogando odio contro colei che non abbassa la testa. Fino all’ultimo questa donna coraggiosa ha sfidato anche il maschilismo retrogrado di una parte di cultura del nostro paese, che protegge le donne italiane solo quando vengono strumentalizzate a fini razzisti perché stuprate da uno straniero.

E quegli insulti infami continuano ad echeggiare nelle orecchie, nella mente e nel cuore di chi sa analizzare fatti e parole.

Carola Rackete,la capitana che tiene testa al “capitano”, prima di essere processata dalle autorità competenti è stata già condannata dal popolo italiano.

di Stefania Lastoria