Il lotto 285 – capitolo cinquanta

 

Scrivere è vedere ciò che non vuole e non deve essere visto.”

Luca D’Andrea – L’animale più pericoloso

Ai primi di agosto aveva avuto inizio la mia prima avventurosa trasferta verso la grande città del Nord. Dapprima avevo dovuto superare la linea del fronte che separava la zona presidiata dai partigiani dal territorio occupato dai tedeschi. Lasciati i miei compagni per raggiungere in breve tempo la città, non avevo avuto l’accortezza di evitare di salire su di treno locale. Appena attraversato il fiume che tagliava la pianura i tedeschi avevano bloccato il treno ed avevano fatto scendere tutti gli uomini giovani trasferendoci in una caserma vicina. Subito ci avevano portato ad eseguire lavori di sterro e consolidamento del terreno al due lati del fiume, dove erano allestite, ben camuffate dalla folta vegetazione, fortificazioni e pezzi di artiglieria antiaerea, di cui io quindi potei venire a conoscenza. Lavoravamo prevalentemente di notte. L’indomani, venivamo ricondotti in prigione e potevamo quindi avere qualche ora di sonno nelle nostre cellette.
Un pomeriggio ero stato svegliato da un ticchettio, che sembrava quello dell’ingranaggio di un orologio, ma poi mi ero accorto che era più un gocciolio prolungato e costante, forse dovuto a un’infiltrazione di qualche colonna d’acqua malferma. Avevo accanto a me nella cella, disteso su di una branda, un uomo sulla quarantina, vestito di una casacca a righe come quella di un vero detenuto, anche se il carcere non mi era sembrato all’inizio un vero luogo di detenzione ma piuttosto una palazzina civile, con appartamenti e una cantina. Ormai sveglio avevo cercato di capire da dove provenisse quello zampillio e ben presto mi ero reso conto che era il mio compagno che piangeva e le lacrime gli scendevano talmente torrenziali fuori dal letto che avevo pensato che quel copioso lacrimare fosse dovuto a una qualche forma di congiuntivite, ma poi avevo avvertito in lui una tale, cupa disperazione che mi ero avvicinato a lui per consolarlo, e ed avevo visto che aveva ripreso a singhiozzare più forte, tanto che le lacrime avevano quasi riempito una ciotola posta sul pavimento. Un’altra ciotola, contenente una brodaglia dove nuotavano alcuni pezzi di carne, era intatta. L’uomo aveva continuato ancora un po’ nella sua muta commozione, poi i suoi ansiti si erano acquetati ed avevo potuto così interrogarlo sul motivo della sua presenza in quella oscura prigione. Mi aveva raccontato di essere stato colto dai repubblichini a fare attività di spionaggio a favore dei ribelli, di averli aiutati, come barcaiolo che faceva la spola tra una riva e l’altra del grande fiume (anch’io, forse, ero stato traghettato da lui in uno dei miei primi tentativi di varcare le linee) ed era stato incarcerato come disertore, traditore e spia, in attesa di un processo la cui sentenza sicuramente non sarebbe stata lieve. Io, naturalmente, non gli avevo rivelato la mia vera identità, dicendo solo che ero stato arrestato assieme ad altri civili in un rastrellamento dei tedeschi. Allora il suo volto si era un po’ disteso e così avevo avuto modo di parlare di quella guerra civile nella quale, lui forse inconsapevolmente eterodiretto, io con qualche motivazione più degna, eravamo stati coinvolti. A quel punto egli aveva abbozzato un sorriso, mi aveva teso la mano, stringendomela con forza, ed aveva proferito, in modo solenne, queste parole, riferendosi forse alle lacrime che aveva appena versato: “Ho sempre desiderato raccontare la mia storia, anche se la storia di una persona è solo una goccia nel mare. Se però ti sei mai trovato in mare sotto la pioggia, saprai che ci sono due tipi di acqua. Quella del mare non somiglia affatto alla prima goccia fresca d’acqua dolce che ti bagna la faccia, alla seconda che ti cade sulla lingua e poi alle altre che ti colpiscono le palpebre chiuse finché tutto intorno a te gli scrosci non schiaffeggiano il mare. Il difficile è capire da dove cominciare. La mia vita ha avuto inizio in circostanze davvero dure, ma la mia storia non deve fare altrettanto, sebbene niente sia in grado di cavarci fuori la sincerità quanto la sofferenza. La sofferenza subita, ma anche quella inflitta. Perciò conservo le mie lacrime come monito per me e le altrui sorti, perché questa guerra finisca e il tedesco oppressore sia definitivamente sconfitto.”. Due giorni dopo era stato impiccato come disertore dalla Guardia Nazionale.
Ero rimasto in detenzione ancora qualche giorno, poi, una notte, mentre ero al lavoro, avevo approfittato della confusione derivata da un violento mitragliamento per darmi alla fuga raggiungendo a piedi, dopo una lunga marcia tra i campi, quella casetta di periferia dove ero stato accolto precedentemente dalle bella Rosetta e dal suo compagno, il casellante, quei due validissimi partigiani, i quali, poi, mi sarebbero stati di grande aiuto in quei difficili e drammatici momenti. Il viaggio verso il Nord cominciava ad essere una vera avventura. Ero partito, con la valigetta contenente la mia fedele radiotrasmittente, ero sceso poi in barca, attraversato il fiume, ed ero arrivato in paese dove i compagni partigiani mi avevano messo a disposizione un calesse con una cavalla, guidato dalla fedele Rosetta. Avevo cominciato così in maniera più comoda la strada per il Nord ma ben presto si era sparsa la notizia che era arrivato un terrorista con una cassetta piena di esplosivo per far saltare un ponte. Allora era stato tutto bloccato e avevamo dovuto cercare di aggirare i vari posti di blocco, riuscendo a superare, ancora una volta, una delle tante difficoltà da me fino allora vissute.
Giunti finalmente in città, la mattina del 10 agosto 1944, passando per quella piazza che sarebbe stata, dopo la Liberazione, il teatro dell’ultimo atto della vita di un dittatore, avevo avuto la visione raccapricciante dei cadaveri, esposti su di un marciapiedi, sotto un distributore di benzina, di 15 partigiani, fucilati dai fascisti dopo essere stati prelevati dal carcere cittadino. Questa visione aveva fatto riaffiorare dal mio interno la rabbia e la spietata determinazione che mi avevano sorretto nei duri e drammatici momenti della guerra dei GAP a Roma, che partendo per il Nord mi ero proposto di rimuovere.

N.d.A.: Devo le parole pronunciate dal prigioniero in questo capitolo all’inglese Sara Collins, autrice del romanzo “Le confessioni di Frannie Langton”.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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