La diffusione del razzismo in Italia

Nella vicenda di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni con origini capoverdiane ucciso a Colleferro il 6 settembre, in tanti hanno parlato immediatamente di matrice razzista e fascista all’origine dell’aggressione. Il campo è stato delimitato e più o meno la sintesi è stata: ecco, questo è il razzismo in Italia. È evidente che, anche se quell’esplosione di violenza ne conservi i tratti, sia tuttavia riduttivo pensare che il razzismo strutturale che c’è nel paese sia una questione che riguarda solo gli autori dell’ennesimo pestaggio o certi partiti politici che usano la xenofobia come metodo di propaganda.

Non ci rendiamo conto che in Italia il razzismo è approvato e perpetuato anche dai meno sospettabili, parliamo dunque di un razzismo “bonario”, quasi inconsapevole, diffuso tra le persone comuni e accettato perfino da chi è certo di non avere preconcetti e pregiudizi.

Sul razzismo alimentato dalla politica, sarebbe opportuno fare una ricognizione nel passato, a quando ad esempio nel 1950 Aimé Césaire, uno dei più importanti intellettuali postcoloniali, accusava già di ipocrisia l’europeo borghese e bianco suo contemporaneo. Nel suo “Discorso sul colonialismo” denunciò il fatto che razzismo e colonialismo fossero largamente accettati nell’Europa illuminata, umanista e cristiana.

Per parlare di colonialismo Césaire usa dunque come termine di paragone il nazismo in Europa.

Quel che il borghese europeo non perdona a Hitler non è il crimine come tale, non è l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa metodi coloniali fino ad allora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri d’Africa. Nel dopoguerra, in occidente, la banalità del male di cui avrebbe scritto Hannah Arendt nel 1963 e l’indifferenza nei confronti di chi era discriminato e ucciso per il solo fatto di avere origini o religioni diverse erano all’ordine del giorno.

Queste fotografie del passato sono oggi necessarie a comprendere il presente.

Oggi è facile ridurre il razzismo al fascismo strisciante in molte società, e parlare del “pericolo delle destre” e di come sia importante arginarle. E sebbene sia vero che i partiti, i movimenti e le persone che si muovono in quest’area abbiano un ruolo cruciale nell’alimentazione di xenofobia e violenza, bisogna avere uno sguardo ad ampio raggio.

Basterebbe pensare al tacito consenso dei governi europei, tutti democratici, ai campi di Moria, in Grecia, dove si imprigionano migranti di ogni età e origine, e dove i diritti umani vengono negati. O alle politiche che prevedono la costruzione di più barriere, abissi di separazione tra coloro che godono dell’esercizio di diritti e coloro che non hanno diritto ad avere diritti.

Il razzismo “inconsapevole” è di tipo culturale. Mancando una sua seria messa in discussione – e un’operazione che lo smonti e lo decostruisca – è spesso meno visibile, difficile da cogliere anche da chi pensa di essere “antirazzista”, perché ha comunque assorbito pregiudizi e percezioni distorte nei confronti di altre nazionalità o appartenenze etniche.

Come ci spiega benissimo l’attivista scrittrice Alesa Herero quando dice: “La bianchezza è questa struttura imperiosa fondata su capitalismo, razzismo, patriarcato, classismo e dinamiche coloniali e paternaliste profondamente interiorizzate. Da secoli rappresenta la norma a partire dalla quale tutto il resto è diverso.”

Sono questi gli elementi che fanno del razzismo qualcosa di strutturale. Le discriminazioni e le violenze a cui assistiamo quotidianamente, non sono frutto della semplice ignoranza come spesso viene sostenuto. Sono invece un modo di concepire la società basato sulle disuguaglianze, sull’emarginazione, sulla discriminazione per proteggere il privilegio di pochi.

Bisognerebbe decostruire il razzismo a vari livelli: politico, sociale e culturale.

Una sfida non semplice per la quale però tutti noi dovremmo iniziare a lavorare. Perché siamo vicini ad un punto di non ritorno ed è quindi necessario porre le basi per la costruzione di un nuovo modo di guardare il mondo e noi stessi.

di Stefania Lastoria

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