Morte accidentale di una montagna

Nel 1970 Dario Fo rappresenta una sua celebre pièce teatrale sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, volato giù da una finestra al quarto piano della Questura Centrale di Milano a metà dicembre 1969. Il titolo è Morte accidentale di un anarchico, con il senso sottinteso che in quel volo non c’è stato proprio niente di accidentale. “Quattro piani son duri da far” canta una altrettanto celebre canzone politica di quegli anni. A quanti piani di palazzo corrisponde il volo della cabina precipitata giù dalla funivia Stresa-Mottarone? Si stimano una ventina di metri. Quattro piani di un palazzo corrispondono a una dozzina di metri. Dunque quasi sette piani il precipizio della cabina. A volare giù, però, non è un unico innocente anarchico, ma quindici ignare persone, dopo che la cabina e il pesante carrello di sospensione superiore hanno urtato un pilone dell’impianto a una velocità di circa cento chilometri l’ora, ed essere rotolati poi giù per il ripido pendio, finendo per fracassarsi contro gli alti fusti d’albero del bosco sottostante. Tutto questo perché i gestori dell’impianto hanno inserito un dispositivo, chiamato forchettoni, per disinnescare l’entrata in funzione della frenatura automatica della cabina in caso di qualsiasi guasto.

Le cause del trancio del cavo al momento restano invece ancora imprecisate. Si sa solo che l’ultima sostituzione dei cavi risale al 1998, e che essi devono essere sostituiti ogni vent’anni. Una normativa europea consente una deroga di dieci anni, salvo adeguata verifica tecnica. Solo che nel 2030 scade la concessione a Ferrovie Mottarone Srl, così che questa si sarebbe dovuta spiacevolmente sobbarcare il costo della sostituzione proprio a fine mandato. Tanto spiacevolmente da aver ottenuto la fine della concessione proprio nel 2028, passando l’oneroso sforzo tecnico e costo economico del cambio cavi al nuovo concessionario. Ossia: non c’era proprio alcuna intenzione di sostituire quei cavi portanti e traenti per almeno altri sette anni. Da precisare che la società concessionaria riceve centotrentamila euro annui di contributo pubblico, e Luigi Nerini, il suo amministratore unico, un compenso di centomila euro l’anno.

Sarebbe troppo facile fare ironia proprio su quel forchettoni, che in Italia più che il nome di un dispositivo tecnico, rimanda a indimenticabili stagioni politiche della corruttiva storia patria. Non si tratta, infatti, meramente di fameliche forchette italiche, ma di qualcosa di più strutturalmente pervasivo. È capitato di chiarirlo diverse volte in questa rubrica. Scopo costituente e ineliminabile del dominante sistema economico capitalistico è il profitto. Esso viene prima di tutto, perché esso è tutto. Qualsiasi altro aspetto – salariale, normativo, fiscale, sanitario, ambientale – è considerato una sottrazione indebita alla pienezza del suo ammontare tondo. Qualsiasi obiezione di tipo etico-morale non può minimamente scalfire questa fondante dura lex sed lex, unilateralmente applicata e fatta accettare dal capitale all’interezza della società umana, animale e minerale. Il profitto, infatti, è un che non di etico, ma di tecnico. È il rendimento da intrapresa che deve obbligatoriamente travalicare l’interesse da mero deposito bancario. E più lo travalica per incrementi successivi, più esso è autenticamente profitto. Qualsiasi sottrazione non strettamente connessa alla sua massimizzazione lo snatura.

Si solleva l’obiezione che la responsabilità giudiziaria è sempre individuale e non di un’intera categoria, quella degli imprenditori, in questo caso. Vero, in un’aula di tribunale è tale aspetto che va accertato ed eventualmente sanzionato. Tale responsabilità, però, scaturisce direttamente proprio dal sistema dominante del conseguimento e incremento del profitto come scopo primario e indefettibile. La protezione coscientemente tolta alla funivia del Mottarone, come quella alla macchina tessile che ha ingoiato la bellezza dei vent’anni di Luana D’Orazio sarà certo responsabilità giudiziaria di due singole imprese, ma costituisce atto strutturalmente e logicamente inerente alla law of profit. Altrimenti sarebbe azione di puro sadismo o terrificante volontà satanica.

Si subordina l’aura, la bellezza mozzafiato, universale di un paesaggio alpino e lacustre, quale mezzo, strumento per conseguire il fine, lo scopo di un lucro privato. È strettamente inerente a tale logica di sottomissione di un mezzo naturale a un fine il compiersi del disastro. Ogni strumento, infatti, è inevitabilmente destinato a logorarsi, a guastarsi, rompersi nell’uso prolungato. Un attrezzo, un animale, una persona, il cielo, una montagna. E non accidentalmente. Per questo Kant ammonisce di non ridurre mai l’uomo a mezzo. L’umanità e le montagne, però, sono esistenzialmente legate. Lo aveva profondamente intuito un grande maestro della pittura d’ogni tempo come Paul Cézanne. Dipingendo e ridipingendo il Mont Sainte-Victoire, in Aix-en- Provence, sempre ripeteva: “La montagna mi guarda”. Come sta guardando noi ora quella del Mottarone?

di Riccardo Tavani

 

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