Le sentenze non si discutono, ma qualche volta fanno orrore

Tra le notizie di cronaca di questo torrido agosto, una spicca per la sua dolorosa assurdità: due giovani sono stati assolti dal reato di stupro nei confronti di una diciottenne: non per non aver commessoo il fatto, ma perché, secondo il giudice, il fatto c’è, ma non costituisce reato.

Vale la pena riflettere sulla sentenza, basata sulla tesi che “l’esistenza oggettiva di una condotta di violenza sessuale” non costituisce di per sé reato, perché gli imputati (poverini) avevano frainteso il “no” della ragazza.

Già la semplice affermazione che “una condotta di violenza sessuale” non costituisca reato è di per sé un ossimoro. Di solito, il riconoscimento di una violenza non si basa soltanto sulla parola della vittima della violenza, ma anche su un referto medico che attesta la presenza di lesioni, che non si verificano in un normale rapporto consensuale. Stupisce che un giudice affermi contemporaneamente che vi sia violenza (si badi bene, una “oggettiva” condotta di violenza sessuale) e che non vi sia reato. D’altronde per il nostro ordinamento è la violenza, o qualunque altra forma di alterazione della libera volontà, che caratterizza il reato di stupro. Di “consenso” non si fa menzione.

Infatti, così recita il codice penale: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto etc etc.”

E, secondo quanto riportato, la ragazza abusata era proprio in condizioni di inferiorità fisica e psichica, a causa dell’alcol e del fatto che i violentatori fossero in tre.

A giustificare la sentenza assolutoria c’è poi l’affermazione che gli imputati  avessero “errato nel ritenere sussistente il consenso della ragazza”. D’altronde, come può una persona obnubilata dell’alcol esprimersi con chiarezza? Non è sufficiente la sua passività, la sua inerzia, o la debolezza della reazione a far capire che quella persona non è più in grado di affermare la sua volontà? E poi, da quando la mia insensibilità al dolore dell’altro può giustificare la mia violenza? E da quando ho diritto a far uso di una persona come fosse un oggetto? E infine, ammesso che non avessero davvero capito, da quando la stupidità giustifica un reato?

Il giudice, nell’emettere questa oggettivamente brutta sentenza, ha probabilmente fatto un discorso giuridicamente sottile, almeno dal suo punto di vista. Ma quando il comune senso della giustizia è così profondamente offeso da quel discorso, diventa inevitabile andare col pensiero all’Azzeccagarbugli, il personaggio manzoniano che usava la sua competenza giuridica per difendere non la giustizia, ma il sopruso.

La realtà è che un gruppo di ragazzi ha usato come un oggetto una giovane donna, come se un essere umano fosse solo un corpo, e quel corpo non gli appartenesse: già questo offende gravemente la dignità della persona. Lo ha fatto approfittando dell’incapacità di reazione da parte della vittima, sopraffatta dall’alterazione del suo stato mentale e dal numero soverchiante degli stupratori. Lo ha anche fatto con una “oggettiva”  “condotta di violenza sessuale”: ma questo, a quanto pare, non conterebbe dal punto di vista giuridico.

Come essere umano mi sento offeso da questa sentenza, come cittadino mi sento offeso da quel giudice, perché è stata dimenticata l’umanità, è stata ignorata l’etica, che è quel che distingue una comunità umana da un branco di bestie. Se “ama il tuo prossimo” è una difficile opzione, spesso al di sopra delle nostre limitate capacità, “rispetta il tuo prossimo” è il comandamento irrinunciabile della vita civile.

Ho cercato di riflettere sul perché di una sentenza tanto assurda, che sovverte il comune senso di giustizia in nome di una discutibile interpretazione della legge, e mi sembra di aver capito che, probabilmente, una delle sue radici sia ciò che comunemente viene chiamato garantismo.

Se nessuno ne nega la bontà nel suo senso più proprio, che è quello di difendere i diritti dell’imputato, mi sembra però che questi diritti non debbano soverchiare quelli delle vittime né il diritto alla sicurezza della comunità sociale nel suo insieme. In particolare di coloro che, come le donne, sono esposte in modo esclusivo a reati gravi come la violenza sessuale o il femminicidio. Due reati idealmente collegati da una mentalità che potremmo definire di deteriore maschilismo, secondo la quale la donna è un oggetto o una proprietà. Ciò che, d’altronde, ha poco a che vedere con una normale mascolinità, dove l’essere un maschio convive in modo naturale con l’essere (scusate il bisticcio di parole) un essere umano, capace di rispetto ed empatia.

Ma il discorso sul garantismo vale per l’insieme della giurisdizione. Vale per i reati di mafia, per quelli ambientali, per la corruzione, per gli abusi di chi dovrebbe amministrare il bene comune con dignità e onore. Le donne hanno diritto a garanzie per lo meno uguali a quelle degli imputati; e così pure tutti i comuni cittadini, uomini e donne.

Ma poi, mi sembra che questi poveri idioti che stuprano, alienandosi l’esperienza dell’amore inteso sia come eros che come sentimento, siano come la punta dell’iceberg di quanto sta sotto la superficie più o meno presentabile della nostra umanità. Mi riferisco a quanto brillantemente espresso nel libro del generale Vannacci, o esternato in alcune recenti telecronache sportive dal Giappone e in qualche talk show dagli Sgarbi di turno con battute che una volta – quando le donne erano escluse dal mondo militare – si sarebbero chiamate da caserma. Per fortuna la libertà d’espressione, tanto a sproposito invocata da chi vorrebbe difendere l’indifendibile, ci ha consentito di conoscere che cosa bolle nella pentola di tanti illustri rappresentanti di un’umanità così poco umanamente evoluta.

Cesare Pirozzi               

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