La zona d’interesse

Il titolo si riferisce alla vasta area di 40 Kmq attorno al campo di sterminio di Auschwitz, sotto stretta sorveglianza delle famigerate Schutzenstaffel, o SS. Il compito di questa polizia paramilitare nazista era di impedire l’accesso a tale zona, per coprire ermeticamente l’orrore di sterminio quotidiano che si consumava lì nei confronti di deportati in maggioranza ebrei, ma anche rom, oppositori politici, appartenenti ad altri credo, o affetti da menomazioni fisiche e psichiche. La famiglia del comandante nazista Höss vive in una villetta con ampio verde circostante e piccola piscina annessa, separata soltanto dal muro di recinzione del macabro campo di morte quotidiana di massa. Circostanza, però, che non scuote neanche di un capello le tranquille attività di giardinaggio, giochi, chiassosi sguazzamenti nella piscina con scivolo, ai quali tutti i giorni la famiglia e i loro ospiti si dedicano nel godimento della più tersa e indisturbata gioia concessa dalla vita. Gioia cui accudisce una servitù proveniente dalla Polonia, sul cui confine orientale insiste l’intera zona d’interesse. Hitler, infatti, predicava anche il diritto della Germania di espandersi verso Est, come proprio legittimo spazio vitale. Inoltre, Höss e la consorte Hedwig ricevevano quotidianamente altre dosi di terrena gioia, consistente in pacchi con abiti, pellicce, gioielli, quadri e altre pregiate suppellettili, confiscate, ossia razziate agli internati nei campi. Tutto il film è così un’estensione di quella nozione di Banalità del Male, coniata dalla filosofa tedesca Hannah Arendt con il titolo e l’argomento del suo libro sul processo di Tel Aviv nel 1961 contro Adolf Eichmann, un altro dozzinale, mero funzionario del genocidio, che si è limitato a portare a destinazione in perfetto orario i treni con il loro carico di massa umana destinata all’annientamento. Si limitava, perché suo compito era soltanto assolvere giudiziosamente al compito affidatogli dai superiori, esulando da tale compito la successiva sorte dei suoi inappuntabili scarichi ferroviari.   

Il film dell’inglese Jonathan Glazer  è liberamente ispirato all’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis, importante scrittore britannico, nato nel 1949 e scomparso nel 2023. Il libro si ispira alla vicenda di Rudolf Höss, ufficiale nazista comandante del campo, che per la solerzia meticolosa con cui svolge il suo compito è poi nominato dalle alte gerarchie hitleriane a incarichi di più ampia portata, fino ad intestare a suo nome il giro di vite decisivo proprio ad Auschwitz, secondo quanto imposto dallo stesso Hitler con la sua imperiosa volontà di soluzione finale. L’Operazione Höss, infatti, porta alla gasificazione e olocausto, incenerimento di 430.000 ebrei ungheresi in appena 56 giorni. Sua la messa a punto di una vera e propria catena di montaggio di tipo industriale, con una tempistica esattamente scandita tra camere a gas, forni crematori e smaltimento delle montagne di cenere e altri resti incombusti nell’attiguo fiume Sola. Il libro di Amis sviluppa il suo racconto anche sulla scorta dell’autobiografia scritta da Höss, prima di essere giustiziato, a seguito del Processo di Norimberga, che lo condanna a morte. La sentenza eseguita per impiccagione il 16 aprile 1947 avviene non a caso proprio ad Auschwitz.

Sintetizzo queste informazioni, perché da molti anni svolgo incontri con le scuole romane durante il periodo del Giorno della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, al Cinema Farnese, discutendo di film attinenti al tema. Proprio da questa esperienza ho tratto l’insegnamento che non bisogna mai dare nulla per scontato. La maggioranza di ragazze e ragazzi ne sa poco e più spesso niente di quello sterminio che ha gettato l’intera sua civiltà europea in un baratro d’orrore, durante la Seconda Guerra Mondiale, ossia dal 1939 al 1945. Questo perché essa è una generazione ormai troppo lontana da tali fatti. Anzi si tratta di una loro vera e propria estraneità. Se è così in quelle scuole, figuriamoci chi delle stesse generazioni non ha avuto neanche un’istruzione di scuola media superiore.

Questo, d’altronde, non è il primo e non sarà l’ultimo film tratto da un libro o vicende reali del passato più o meno remoto. Anzi, costituiscono ormai una biblioteca sterminata le migliaia di romanzi, saggi storici, inchieste giornalistiche da cui sono tratti film di ogni genere. E chi assiste a qualsiasi film non ha l’obbligo di avere conoscenza diretta  della fonte letteraria o documentale da cui esso è tratto. Il cinema – non solo quello di genere, ma anche quello impegnato, di alto valore stilistico, civile, storico – è un’arte rivolta a ogni strato della società. Al limite anche ai cosiddetti analfabeti di ritorno, ossia a chi ha imparato sì a leggere e scrivere, ma scarsamente esercita tale apprendimento, tanto che ne ha pressoché obliato le basi. Ossia, un film deve piacere in sé e per sé, non per quello che – pur importante – c’è dietro di extra filmico. 

Quanto sopra per chiarezza. Perché è sì un grande e bel film La zona d’interesse, ma lo è un soprattutto, per chi –  come anche me – di quanto c’è dietro ha almeno una certa conoscenza, scolastica o di altro genere, familiare, di frequentazioni sociali, per propria spontaneo desiderio di sapere. Inoltre, anche da un punto di vista quale il mio di critico cinematografico e discreto conoscitore della Shoah, dell’Olocausto, la sola rappresentazione di banalità del male, insistita, reiterata ed espansa a tutto il film, dopo un po’ perde della potenza che ha all’inizio. Proprio perché a un certo punto del racconto si sente la necessità della rappresentazione – non solo indiretta – anche del Male. 

Paolo Mereghetti, noto critico cinematografico, ha scritto in una sua recensione sul Corriere della Sera: “Cosa capiremmo del comportamento di Höss, di sua moglie e dei suoi bambini se non sapessimo già quello che è avvenuto ad Auschwitz oltre il muro di cinta? Se non sapessimo attribuire alle grida e ai rumori che sentiamo «fuori campo» la loro origine, la loro ragion d’essere? Perché vedere il fumo di un treno nascosto dagli alberi se non sapessimo già che su quel treno viaggiavano migliaia di ebrei destinati ai forni? (…) Il romanzo di Martin Amis a cui il film ha «rubato» il titolo era ben diverso perché metteva a confronto le due facce della tragedia, il nipote del segretario di Hitler con il direttore del campo da una parte e dall’altra un sonderkommando…, offrendo così al lettore gli strumenti per capire le differenti forze in campo. ”. I sonderkommando, unità di comando speciali, erano ebrei costretti, sotto la minaccia della morte, a collaborare con le SS, soprattutto nell’accompagnare i deportati, senza farli insospettire, nelle camere a gas e poi confluire i cadaveri gasificati nei forni crematori. Paolo Mereghetti dà comunque la sufficienza al film, assegnandogli il voto di 6 ½. L’obiezione di Mereghetti, certamente valida, non tiene però conto del valore di attualizzazione del film. A lui pare rispondere lo stesso regista in un’intervista: “Anche la mia Auschwitz sembra una costruzione moderna. È proprio questo il punto. Tutti si aspettavano un’ambientazione vecchia, invece no. Non è un film vintage, in costume, da mettere al museo. L’ho costruito con la lente del nostro mondo. Sembra una storia del XXI secolo. La sfida era quella di mantenere autenticità, coniugare la verità e la contemporaneità. C’è un’immersione nel tempo presente. Diversi analisti sostengono che l’Olocausto non tornerà più, io non ne sono così sicuro. Volevo che le nuove generazioni scoprissero l’Olocausto attraverso un film.”. C’è un dettaglio, infatti, che riguarda proprio i giovani. Il taglio dei cappelli dell’attore protagonista, e di qualche altro personaggio secondario, riprende quello a sfumatura molto alta, non solo sulla nuca, ma anche lateralmente, sopra le basette, che aveva davvero Höss. È realizzato, però, in maniera molto più elaborata e simile a quella che oggi usano molti ragazzi, e anche ragazze, a partire dalla moda affermatasi con lo stile punk. Con una visione diretta “dell’altra parte” sarebbe stato molto difficile evitare un contrasto rappresentativo tra il presente di allora e il riferimento a quello di oggi.

Questo valore del film non può e non deve sfuggire, e per me alza il voto del giudizio. E quello che qui ho scritto è anche ciò che direi, se una scuola mi chiedesse di presentarlo e discuterne con le sue classi. È lo stesso che ho appena detto ora qui, consigliando senz’altro la visione del film anche a chi poco o nulla sa di ciò cui esso allude esplicitamente, pur non mostrandolo mai direttamente.

Riccardo Tavani

 

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