Giovanni Marchese, il sindacalista onesto che non piaceva alla mafia

L’omicidio del sindacalista Giovanni Marchese affonda nella notte dei tempi, 18 febbraio 1962. Ma anche allora c’era il marchio inconfondibile della mafia. Siamo ad Alcamo, nel trapanese. Giovanni, 40 anni, lavora come bigliettaio nell’azienda di trasporti Segesta, all’interno della quale è anche rappresentante sindacale della C.G.I.L. Ogni sera, poi, a fine turno, aiuta la moglie nel panificio di famiglia, un’attività che i due consorti hanno avviato insieme per il timore di lui di essere licenziato da un momento all’altro proprio a causa del suo impegno sindacale. E proprio nel panificio in via 15 maggio, l’uomo verrà crivellato da una raffica di colpi d’arma da fuoco.

Chi lo conosceva lo descrisse come un gran lavoratore, un uomo onesto, limpido, tutto d’un pezzo. Pertanto le credenziali per attirarsi qualche antipatia negli ambienti torbidi delle relazioni sindacali c’erano tutte. Credenziali che riversava anche nel supportare i diritti dei lavoratori che rappresentava, per difenderli dai soprusi e dall’inosservanza delle leggi nei luoghi di lavoro. Proprio su quell’attività si concentrarono gli inquirenti, i quali scoprirono che Marchese il giorno dopo avrebbe dovuto recarsi a Trapani per partecipare ad una riunione nella quale si sarebbe discusso della riammissione in servizio di un suo collega licenziato precedentemente senza una chiara motivazione. Ma la pista non ebbe seguito, e le indagini non riuscirono a dare un volto agli assassini soprattutto a causa del muro d’omertà che si trovarono contro in sede d’interrogatori.

La vicenda cadde presto nell’oblio, anche perchè nessuna amministrazione locale si fece mai carico di preservarne la memoria. Non eravamo ancora in piena guerra di mafia, ma Cosa Nostra è sempre stata in conflitto con l’onesta. E la matrice mafiosa del delitto fu chiara fin da subito, oltre che per l’efferatezza dello stesso, anche per il fatto che mesi dopo un uomo si presentò a casa del fratello di Giovanni, Salvatore, e spacciandosi per un amico della vittima “consigliò” a lui e ai suoi famigliari di smettere di cercare la verità altrimenti avrebbero fatto la stessa fine.

di Valerio Di Marco

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