Mastro Titta: er boia de Roma

Giambattista Bugatti, giustiziere dello Stato Pontificio.

Non c’erano le mezze misure nella Roma dei Papi. Il malcontento serpeggiava tra il popolo e spesso esplodeva in violenti misfatti. L’ordine doveva essere mantenuto. La soluzione apparentemente più valida era la condanna a morte.
L’esecuzione in piazza doveva servire come monito. Ammonivano per le strade di Roma le guardie, “state attenti cittadini, qualunque sia la vostra condizione, tenete a freno la rabbia, perché ogni violenza sarà punita con torture atroci e infine con il patibolo”. La paura non fermava la delinquenza. Per cui i patiboli erano sempre più usati.

Abitava al numero quattro del vicolo del campanile. Era il protagonista incontrastato delle esecuzioni di condanna a morte nella Roma papalina. Giambattista Bugatti, meglio conosciuto come Mastro Titta. Nacque a Roma nel 1779. Praticò ben 516 esecuzioni e di ognuna diligentemente la descriveva nelle sue “Annotazioni”. Per ciascuna di esse riceveva un compenso simbolico di un Papetto ovvero tre centesimi di lira romana, a dimostrare la viltà dell’opera, faceva osservare Gioacchino Belli. Mastro Titta perciò non viveva di esecuzioni, la sua professione era verniciatore d’ombrelli. Aveva una bottega sotto casa nel quartiere di Borgo, vicino San Pietro.

Ha “lavorato” al soldo del Papa, dal 22 marzo 1796 al l7 agosto 1864, quando, all’età di 85 anni, fu collocato a riposo da Pio IX con una pensione mensile di 30 scudi.

Asseriva nei suoi scritti di non provare nessun timore per ciò che aveva fatto. Anzi avrebbe rifatto tutto senza esitare. Si sentiva come il braccio esecutore della volontà di Dio per mezzo dei suoi rappresentanti in terra. Era lui che decideva l’ultimo istante di vita del condannato. Era lui che guardava negli occhi per l’ultima volta la persona destinata a morire, lui che vedeva tremare i meno coraggiosi.

Che cosa pensava mai Mastro Titta nell’attimo fatale, quando la mannaia cadeva su lcollo del condannato. Era solo un numero quella persona? Certo è che fino ottantacinque anni ha eseguito condanne a morte.

Probabilmente cercava nella sua opera di essere il migliore, se non altro annotando le tecniche di esecuzione,  per togliere la vita dello sfortunato sul patibolo in modo veloce, limitandone la sofferenza.

Come un rituale prima di ogni esecuzione Mastro Titta si confessava e si comunicava, indossava il mantello rosso e si recava a compiere il macabro atto dell’esecuzione. Non solo a Roma prestava la sua opera, ma anche fuori alla città eterna. Tanto che annotava, “Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno, Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati». Le esecuzioni in una sorta di rappresentazioni teatrali venivano eseguite principalmente a Castel Sant’Angelo, piazza del Popolo e in via dei Cerchi. Ancora oggi una targa affissa nel 1909 testimonia l’esecuzione a piazza del Popolo di due carbonari, Angelo Targhini e Leonida Montanari, condannati a morte dal Papa senza prove e senza difesa. Era il 23 novembre 1825. L’ultima esecuzione in questa piazza Mastro Titta la fece il primo 1 marzo 1826, era la numero 262, Luigi Ponetti, “decapitato” per omicidio con qualità gravanti.
Lord Byron celebre viaggiatore rimase colpito dalla crudezza delle scene di esecuzione capitale cui assistette. Conobbe Mastro Titta quando questo aveva quasi raggiunto la duecentesima esecuzione. ll poeta inglese descriveva così «La cerimonia, compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell’ascia, lo schizzo del sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte, è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle Sentenze inglesi”.

Charles Dickens restò molto impressionato da un’esecuzione cui aveva assistito in via de’ Cerchi, intorno al 1865 commentava con queste parole la scena: “Uno Spettacolo brutto, sudicio, trascurato, disgustoso; che altro non significava se non un macello, all’infuori del momentaneo interesse per l’unico disgraziato attore”. Quando il cadavere fu portato via, la lama detersa, e il boia s’allontanava ripassando il ponte, lo scrittore amaramente così concludeva le sue riflessioni: “….and the show was over”, “….e lo spettacolo era finito”.

Infine, Massimo D’Azeglio, in alcune pagine de “I miei ricordi”, descrive un’immagine vista a Porta San Giovanni: “In una gabbia di ferro stava il cranio imbiancato dal sole e dalle piogge di un celebre malandrino”. Era costume per gli uomini di allora portare ad assistere alle esecuzioni i loro figli maschi. Alla fine, a giustiziato morto, davano uno sganassone (violento schiaffo) sulla nuca del figlio, come severo avvertimento.

Al boia era fatto divieto oltrepassare il fiume Tevere al di la di Borgo, solo per proteggerlo, vista la fama della sua persona. Gli era concesso attraversare il ponte solo per le esecuzioni. Tanto è che ogni volta che si diceva “Mastro Titta passa ponte” significava un’altra condanna a morte.

Faceva il suo lavoro, senza rimorsi, confortato dall’atto che la confessione e la comunione prima dell’esecuzione lo assolvessero dai suoi peccati. Ma soprattutto perché era il Papa che ordinava. Il Papa di un potere che nulla aveva di religioso, ma che decideva sulla vita delle persone.

L’ultima esecuzione la 516 fu di Domenico Antonio Demartini, regnicolo, reo, di omicidi, “morto” in via de’ Cerchi li 17 agosto 1864.

Giambattista Bugatti moriva a Roma il 18 giugno 1869.

ll cinema ha fatto “der boia de Roma” un personaggio. Nel  Rugantino teatrale fu interpretato magistralmente da Aldo Fabrizi che disse “farei Mastro Titta per tutta la vita”, in quello cinematografico venne interpretato da Paolo Stoppa. L’ultimo attore a portarlo sul palcoscenico di un teatro è stato Maurizio Mattioli.

Rugantino, personaggio romanesco, sfrontato e amante delle donne che alla fine si addosserà un delitto da lui non commesso, per far innamorare una bella femmina.
Condannato a morte verrà giustiziato da Mastro Titta.

Tanta acqua è passata sotto i ponti di Roma, il tempo è trascorso ma l’uomo non è cambiato. Troppi, tanti, i Mastro Titta che ci sono nel mondo.

di Antonella Virgilio

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