Ius soli, un debito di civiltà

Capolinea degli autobus, ore 13,00 di un giorno infrasettimanale, uscita di scuola. I ragazzi che salgono a bordo del pullman, arroganti, sudati, svociati, spettinati, sono tutti studenti, e sono i frutti migliori della buona scuola e delle buone famiglie italiane. Si danno un gran daffare per occupare con gli zaini più posti possibili: alla prossima fermata saliranno i “negracci” e gli studenti non li vogliono accanto. I “negracci”, per tutto il viaggio continuano a chiamarli così, non possono avere diritto a un posto a sedere. Anche se hanno il biglietto, anche se hanno lavorato fino a un minuto prima.
Lo straniero, soprattutto se è povero e facilmente riconoscibile per il colore della pelle, fa sempre più fatica ad essere accettato come cittadino. Perché al cittadino sono riconosciuti i diritti, mentre allo straniero che vive con noi si chiede esclusivamente di stare alle regole. E poichè non può essere cittadino chi ha solo doveri, chi non ha diritti deve accontentarsi di essere un suddito. Gli studenti di provincia che sul pullman urlano “negracci!” non sono così distanti dagli agricoltori che dalla pianura pontina alla Puglia stivano i braccianti stranieri nei container, né dai grigi fascio-nazisti che si sgolano in cortei per la purezza di sangue: tutti allo stesso modo stanno dividendo la nostra società in buoni e cattivi: da una parte i cittadini, dall’altra i sudditi; da una parte i privilegiati con molti diritti e qualche dovere, dall’altra gli irrilevanti, i dimenticati, con troppi doveri e nessun diritto. In questa deriva razzista che ci sta sfuggendo di mano, e che sta cancellando con un battito di ciglia millenni di sforzi del genere umano per la conquista di una convivenza civile, l’approvazione dello Ius Soli temperato e dello Ius Culturae sono ormai improrogabili. Una legge che sancisca il principio che “chi cresce in Italia è italiano” è un gesto di civilissimo amore nei confronti di 815mila bambini italiani a metà, “stranieri italiani” che dobbiamo caricarci sulle spalle oggi perché possano, domani, guardare oltre i muri di un’indifferenza che partorisce superstizione, oscurantismo ideologico e religioso.
Ci ha messo secoli, l’uomo, per capire il valore della tolleranza e della libertà. Ha fatto una fatica immensa, l’uomo, a pensare che siamo uomini liberi perché siamo uomini uguali. In questi giorni di conflitti di razza e religione si riaffacciano i sempreverdi temi dell’Illuminismo, quelli sui quali abbiamo fondato le civiltà “moderne”, e che rischiamo di dimenticare.
Voltaire, che dell’illuminismo è stata una delle voci più autorevoli, nel suo Trattato sulla tolleranza, da ateo pregava così:
Non agli uomini mi rivolgo, ma a te, Dio di tutti i viventi, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle creature deboli, smarrite nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, osino domandare qualche cosa a te, che hai dato tutto, a te, che hai leggi immutabili ed eterne, allora degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dal nostro essere uomini.
Fa’ che questi errori non generino la nostra sventura.
Tu non ci hai dato un cuore per odiarci l’un l’altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa’ che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il peso di una vita penosa e passeggera.
Fa’ sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati “uomini” non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione.
Fa’ in modo che quelli che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che quelli che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino quelli che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera.
Fa’ che quelli che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo, e che possiedono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano “grandezza” e “ricchezza”, e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c’è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi.
Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli!
Abbiano in orrore ogni dittatura esercitata sulle anime, così come odiano la criminalità che strappa con violenza il frutto del lavoro e dell’attività pacifica!
Se sono inevitabili i disastri della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della nostra vita per benedire insieme in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che questo istante ci ha dato.

di Daniela Baroncini

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